Biotestamento: poche richieste, un “radicale” insuccesso

A 5 anni dall’introduzione solo lo 0,4% degli italiani ha depositato le Dat (Dichiarazioni anticipate di trattamento). L’Associazione Luca Coscioni non si arrende ai fatti e affina le armi della propaganda per convincere il restante 99,6% di italiani che, evidentemente, non vogliono morire ma farsi curare.

Il 22 dicembre del 2017 il governo, guidato allora da Gentiloni e con ministro della Salute Beatrice Lorenzin, emanava la Legge 219 sul “testamento biologico”: questa legge – accolta al tempo con grande entusiasmo dagli ambienti più laicisti – intendeva garantire ad ogni cittadino italiano – dunque non soltanto i malati, ma anche le persone ancora sane – la volontà di essere curato o meno, quando fosse necessario.

Oggi, a distanza di 5 anni, si sente il lamento dell’Associazione Luca Coscioni: da un monitoraggio da essa effettuato solo lo 0,4% degli italiani ha depositato le Dat (Dichiarazioni anticipate di trattamento) con cui si ha la possibilità di indicare le proprie volontà in merito al fine vita, ovvero la possibilità che venga praticata una forma di eutanasia. Sono solo 185.500 gli italiani che sono ricorsi ai “benefici” di tale legge. Cosa significa? Che tutti gli altri 60 milioni non hanno la preoccupazione di evitare il cosiddetto “accanimento terapeutico”. Vogliono invece essere curati, se malati, al meglio possibile.

Il gigantesco flop di questa legge dimostra chiaramente come determinate questioni sanitarie, enfatizzate da media compiacenti, non trovino nessuna corrispondenza nella realtà. La gente non vuole “morire meglio”: vuole vivere meglio. Le dimensioni ridottissime del numero di chi è interessato ad accedere a un certo tipo di servizio rivela l’assoluta inconsistenza di ipotetiche esigenze che nascondono solo visioni ideologiche ostili alla vita.

Eppure, questi ambienti non si arrendono neppure di fronte all’evidenza dei fatti. Se la realtà non corrisponde con le teorie – diceva Lenin – tanto peggio per la realtà. E così l’Associazione resa famosa dalle iniziative di Marco Cappato ha giustificato il numero irrilevante di adesioni con la mancanza di propaganda, che a suo dire dovrebbe essere un onere del Ministero della Salute, che dovrebbe promuovere a spese dei contribuenti campagne di comunicazione.

In assenza di iniziative governative, l’Associazione ha deciso di prendere l’iniziativa, lanciando una campagna informativa, con un video narrato da Giobbe Covatta dal titolo Il biotestamento spiegato agli adulti per illustrare l’importanza del testamento biologico e offrire tutte le informazioni per poterlo fare subito. Inoltre Cappato ha annunciato di voler fare pressioni sul ministro Schillaci per sensibilizzarlo sui temi del fine vita, intesi come “diritti umani”. Questa iniziativa è impressionante perché giunge dopo un triennio che ha visto morire decine di migliaia di persone per scelte quantomeno discutibili sulla  gestione dell’epidemia. Evidentemente non sono sufficienti per una certa cultura di morte.

La richiesta di aumentare le DAT, nonostante il disinteresse pressochè totale nei confronti della scelta dell’eutanasia, viene dall’esigenza di diffondere ulteriormente una cultura di morte, magari partendo da casi particolari, dai casi limite che Cappato e soci sono abilissimi a portare sul palcoscenico mediatico. Tuttavia oggi il problema va ben al di là del pur doveroso riconoscimento di dolorose situazioni personali. Esso si pone anche sul piano culturale, sociale e politico, dove presenta il suo aspetto più sovversivo nella tendenza a interpretare le scelte contro la vita come legittime espressioni della libertà individuale, da riconoscere e proteggere come veri e propri diritti.

In questo modo giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze un lungo processo storico, che dopo aver scoperto l’idea dei «diritti umani» — come diritti inerenti a ogni persona e precedenti ogni Costituzione e legislazione degli Stati — incorre oggi in una sorprendente contraddizione: proprio in un’epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più emblematici dell’esistenza, quali sono il nascere e il morire.

Da un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell’uomo e le molteplici iniziative che ad esse si ispirano dicono l’affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale. Dall’altro lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa dell’affermazione e della tutela dei diritti civili il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto.

È chiaro che, con tali presupposti, non c’è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole. Ogni volta che la libertà si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva, è la legge del più forte a imporsi, diventando criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza sociale.

Paolo Gulisano

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