Covid, il fatalismo e la replica degli errori

Il numero dei morti che viene comunicato è in linea con quello di molte patologie polmonari di cui non si parla più, ma i messaggi catastrofisti sono la nota dominante. Come a marzo-aprile, le terapie intensive rappresentano un elemento chiave di questa strategia comunicativa, con la prospettiva di una nuova “selezione” dei casi, nonostante per ora ci siano reparti anche vuoti e le cure esistano.

Da alcuni giorni i messaggi catastrofisti riguardo al Covid stanno diventando sempre più insistenti. Si nota, rispetto a marzo e aprile, una diversa strategia comunicativa. Tutti ricordiamo lo slogan ripetuto come un mantra durante il lockdown: “Andrà tutto bene”. Oggi invece il messaggio è: andrà tutto male, anzi, malissimo.

Il numero dei morti che viene comunicato – e su cui si tacciono spesso l’età e le patologie concomitanti – è in linea con quello di tante altre patologie polmonari di cui non si parla più, ma non importa. In questo momento la parola d’ordine è puntare l’attenzione sulle terapie intensive, le quali – ci viene detto- saranno sature di pazienti entro due mesi. A quel punto scatterà il lockdown generale, presumibilmente intorno all’Immacolata, che ci accompagnerà poi fino a gennaio. Non è un caso che lo stato di emergenza proclamato nel febbraio scorso dal governo Conte duri fino al 31 gennaio.

Le terapie intensive rappresentano un elemento chiave della strategia comunicativa. Tutti ricordiamo le immagini delle persone intubate, o con la testa imprigionata dietro paurosi caschi. Le sole parole “terapia intensiva” fanno paura, fanno pensare all’anticamera della morte. “Non sappiamo se reggeremo”, dichiarano alcuni anestesisti. Perché? Verrebbe da chiedersi. L’idea che si vuole far passare è che un’infezione da Covid sia ipso facto gravissima, tale da portare fatalmente alla terapia intensiva e alla morte. Ma non è così.

Negli scorsi mesi si è visto che i casi gravi sono stati quelli in cui non si è fermato subito il processo infiammatorio, al suo inizio, somministrando solo antipiretici. Intervenendo con terapie robuste, con potenti antinfiammatori, e con altri farmaci, le morti non sono inevitabili. Anziché dunque aspettare l’aggravamento dei pazienti e attendere il loro arrivo nelle terapie intensive, sarebbe molto più opportuno fare diagnosi precoci, e addirittura prima di conoscere l’esito di eventuali tamponi sarebbe opportuno intervenire con cure precauzionali. Evidentemente bisognerebbe incrementare l’attività della rete medica territoriale, in particolare quella dei medici di Medicina Generale, ma tutto questo non è all’orizzonte.

Sembra di assistere alla replica esatta di quanto avvenuto nella scorsa primavera, con gli stessi errori, come se non fosse accaduto niente, come se non si fosse imparato niente. Come se le regole imposte con durezza da Stato di Polizia, dalle mascherine ai distanziamenti, in fondo sapessimo già che non raggiungeranno lo scopo di arginare i contagi.

Un fatalismo rassegnato, che non trova conforto, visto l’ostinato negazionismo rispetto alle possibilità di curare la malattia, e che attende solo il messia-Vaccino. “Distanziamento e mascherine a oggi sono l’unica terapia che sappiamo effettivamente funzioni fino all’arrivo del vaccino” ha dichiarato nei giorni scorsi la dottoressa Cristina Mascheroni, anestesista e presidente dell’associazione di categoria Aaroi-Emac Lombardia. Una dichiarazione agghiacciante, soprattutto se si pensa che arriva da quel tipo di specialisti il cui ruolo è utilizzare tutte le cure possibili, ad un livello appunto “intensivo”, per salvare i pazienti.

Lo scenario di una saturazione delle terapie intensive (nonostante alcune realtà come la Lombardia abbiano a disposizione le strutture realizzate nell’ex Fiera e a Bergamo, al momento completamente vuote) va ancora una volta a riproporre lo stesso film già visto a marzo e aprile, con la prospettiva di una “selezione” dei casi da ammettere o meno alle cure intensive.

Non si è a sufficienza indagato su quello che è accaduto in quei mesi, con le indicazioni di selezionare i pazienti da curare in base all’età o alla presenza di altre patologie, ed ecco riapparire lo spettro di eventuali abbandoni terapeutici, con il semplice accompagnamento del paziente alla morte con l’aiuto della morfina. Una prassi che per molti operatori sanitari chiamati ad applicare tali indicazioni ha voluto dire andare incontro ad un notevole impatto emotivo, con burnout e stress post-traumatico, ma che per molti pazienti ha voluto dire perdere la vita solo perché avevano più di 75 anni. Uno scenario che si vorrebbe non rivedere più.

Se l’attuale clima di allarmismo per l’evoluzione dei contagi può avere un aspetto positivo, questo sta proprio nel non farsi trovare impreparati, nell’implementare i posti letto per non avere più l’alibi del sovraffollamento e della scarsa disponibilità di cure, e nello smettere di far credere ai pazienti e ai familiari che non ci sono cure e che bisogna solo rassegnarsi e aspettare che passi la tempesta. Usiamo tutte le possibilità terapeutiche che sono disponibili, e non sono poche.

Paolo Gulisano

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