Daniel Defoe – Diario dell’anno della peste

Non sono poche le descrizioni della peste nella letteratura: quella solenne di Tucidide, quella severa di Lucrezia, quella pensosa di Boccaccio, quella commossa e misurata di Manzoni. Ma questo Diario dell’anno della peste (Elliot editore, 2014 pag 182 euro 17,50), una terribile epidemia avvenuta nel 1665, si impone per la forza della scrittura, realistica e visionaria insieme, e per la drammaticità sobria e vivida. Ne fu autore, nel 1722, Daniel Defoe, lo scrittore inglese, autore del celebre romanzo d’avventura “Robinson Crusoe”.  

Per secoli, il sangue degli inglesi si è raggelato al ricordo del grido “Portate fuori i vostri morti!”, il macabro annuncio propagato lungo le vie di Londra dai raccoglitori di cadaveri che attraversavano la città, ammucchiando corpi su una carretta. La Grande Peste colpì la capitale del regno tra il 1664 e il 1666, uccidendo oltre 100.000 tra uomini, donne e bambini, un quinto dell’intera popolazione. Il racconto dell’ultima grande epidemia di peste bubbonica in territorio britannico fu redatto nel 1722 da Daniel Defoe che, all’epoca dei fatti, era ancora un bambino. Basandosi sui propri ricordi e su un’assoluta fedeltà a elementi storici e documentali, l’autore fece confluire nel Diario i suoi due grandi talenti di giornalista e romanziere. Attraverso gli occhi e i controversi sentimenti del protagonista ricostruì le sconcertanti tappe del contagio, i primi annunci di vittime, gli stratagemmi per sfuggire al focolaio, il panico e infine l’incendio che devastò gran parte della città ponendo fine alla diffusione del morbo.     

Defore si interroga sui possibili motivi dell’epidemia, ma mentre lui cerca di trovare una spiegazione basandosi su eventi naturali, la popolazione londinese attribuisce il fenomeno al passaggio di una cometa, portatrice di sventura. Il suo racconto quasi cronachistico è estremamente interessante: siamo infatti molto lontani dal “superstizioso” Medioevo, in un’Inghilterra protestante e alle soglie dell’Illuminismo, e tuttavia ancora una volta di fronte allo scatenarsi della malattia e della morte paura e irrazionalità. Per le strade della città si svolgono scene raccapriccianti: il terrore prevale sulla solidarietà, e le vie di Londra pullulano di sospetti: si pensa infatti che le persone infette, spinte dall’odio, vogliano contagiare gli altri per farli soffrire come loro.  

Eppure quella era la Londra dei nuovi scienziati, degli anatomisti che sezionando i cadaveri scoprivano il sistema circolatorio, come il famoso scienziato William Harvey. La medicina, dopo il Medioevo, era progredita nell’ambito della conoscenza: apprendere le cause dei fenomeni naturali, questo era il grande imperativo. Così ci si dedicò febbrilmente all’anatomia, allo studio cioè della struttura del corpo, tessuti, organi, apparati, e poi alla fisiologia, ossia allo studio del funzionamento dei vari organi e sistemi del corpo. Victor Frankenstein non è quindi una sorta di pazzo isolato, ma vuole essere la punta di diamante di una concezione della medicina come sfida alla natura e alle sue leggi.               

A partire dal Rinascimento le facoltà di medicina si vedono affiancate da istituti di formazione che si separano dal resto del sapere umanistico cui in precedenza erano collegate. In questo fece da paradigma l’Inghilterra, dove nacquero accademie mediche, collegi specializzati che portarono all’elaborazione di una scienza medica autonoma dal resto del sapere e quasi autoreferenziale, recidendo sempre più i legami con la dimensione religiosa che la medicina aveva sempre avuto. Per altri versanti la medicina andava progressivamente allontanandosi dalla pratica popolare e dalla gente stessa, per ritirarsi nei collegi e nei laboratori, certamente facendo notevoli progressi sul piano meramente tecnico, ma anche perdendo di vista la sua finalità comunitaria e sociale. Una visione antropologica chiusa alla dimensione del trascendente, un metodo scientifico che pretende di esaurire la conoscenza della realtà nei confini del laboratorio, che giudica il Cristianesimo come un ostacolo al progresso delle scienze, compresa quella medica. 

Con la sua descrizione della grande epidemia di Londra, Defoe non ha soltanto documentato un evento tragico, spaventoso, che sarebbe stato seguito per altri tre secoli – fino ai giorni nostri – da analoghe tragedie che hanno colpito l’umanità, ma ha anche anticipato alcune questioni oggi quanto mai fondamentali: il grande dibattito che oppone oggi due antropologie differenti non è quello tra scienza e fede, tra cui non esiste alcun contrasto, semmai divergenza di interessi, di mezzi e di fini, quanto quello tra scientismo e scienza. Scienza sì, scientismo no: questa è la posizione filosofica di chi crede, ma anche di chi è semplicemente aperto al dubbio e alla complessità della realtà. Di chi non vuole per forza sostituire le certezze religiose, rivelate, cui non aderisce, con presunte certezze di rimpiazzo, con surrogati improbabili e infondati, ma da presentare come rocciose sicurezze. La scienza, in realtà, nasce dal matrimonio tra il pensiero greco, tra la sua concezione di ragione, e l’idea biblica di Dio come Logos. 

Che il mondo si presenti a noi ordinato, indagabile e comprensibile è la profonda intuizione della grecità. E che la sua intelleggibilità sia causata dalla sua Origine, né casuale, né caotica, ma Intelligente, è in termini simili, e più esaustivi, il cuore di quanto rivelato dal Libro della Genesi. Se la medicina è un’arte, di prendersi cura ma anche di conoscere, di comprendere la natura e l’uomo, e non un semplice mestiere  lo è proprio perché è chiamata, più che a risolvere, ad assestare creativamente equilibri divenuti precari. La società contemporanea ha cercato di escludere l’idea della morte, così come la paura della vecchiaia, in quanto sono vissute come aspetti negativi, ed implicano una totale alienazione dalla felicità e dall’appagamento che sono, invece, prerogative proprie di una persona giovane. Si è arrivati all’utopia della salute assoluta: un’ideologia che promette una condizione in cui i confini fra male e malattia, salute e salvezza, guarigione e redenzione diventano sempre più esigui. L’illusione dell’eliminazione di ogni malattia e della sofferenza, non solo del singolo individuo ma anche di tutto il genere umano. Un’utopia che contraddice l’esperienza quotidiana del medico, ma anche di ogni uomo, che è quella della fragilità dell’esistenza umana: si possono trattare singole malattie, lenire sofferenze, ma malattia e sofferenza non possono essere eliminati completamente.

Come sempre in anticipo sui tempi, Defoe diede vita a un pioneristico esempio di narrative non-fiction, un documento storico e insieme una geniale invenzione letteraria che ancora oggi, a distanza di secoli, continua ad affascinare i lettori.

Paolo Gulisano

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