De Donno, il medico che sapeva battere il Covid

Addolora la morte di Giuseppe De Donno, il primario al Poma di Mantova che all’apice del Covid nella primavera 2020 aveva applicato con risultati eccellenti la terapia col plasma immune. Subendo poi attacchi e boicottaggi, anche politici. A giugno aveva deciso di lasciare l’ospedale per fare il medico di base, pare con un sogno nel cassetto.

Il dottor Giuseppe De Donno ha lasciato questo mondo in modo tragico. L’anno scorso si era parlato di lui, dell’Ospedale Poma di Mantova e del San Matteo di Pavia, dai quali all’apice della pandemia nella primavera del 2020 arrivò una notizia straordinaria, un messaggio di speranza: i malati di Covid ricoverati in condizioni gravi venivano salvati. Non un solo morto in questi due nosocomi.

Mentre i media diffondevano una narrazione catastrofistica, parlando di un virus mostruoso responsabile di morti inarrestabili come la Peste del ‘300, da questi due ospedali lombardi arrivavano invece le notizie di complete guarigioni, ottenute con una metodica semplice, nota da tempo, pressoché a costo zero: la terapia col plasma immune, proveniente da persone malate e poi guarite. Plasma contenente anticorpi protettivi, immunoglobuline in grado di neutralizzare il virus. Si tratta di un principio semplice dell’immunologia applicato da tempo. È ciò che ha salvato tante vittime potenziali del Tetano, malattia potenzialmente letale per la quale – in una persona non immune – in primo luogo si somministrano le immunoglobuline, in seguito si può fare la vaccinazione per mantenere l’immunità.

La terapia con il plasma immunepraticata su larga scala in tutti i ricoverati, avrebbe potuto quindi impedire migliaia di morti, a costo zero, perché il plasma è assolutamente gratuito.  Unitamente alle cure domiciliari precoci, avrebbe completamente ridimensionato la portata dell’epidemia. Poi, con tutta calma e con rigore scientifico nella sperimentazione, si sarebbe anche potuta promuovere la ricerca sui vaccini, magari con metodiche tradizionali anziché puntare sugli esperimenti con le terapie geniche. Avrebbe potuto essere la fine dell’emergenza Covid, ma così non è stato. E alle migliaia di vite umane perse nell’epidemia per una volontà politica di rifiutare le strategie di cure, si è ora aggiunta la dolorosa perdita della vita del dottor Giuseppe De Donno.

Il medico mantovano aveva provato ad applicare l’elementare principio dell’immunologia che abbiamo sopra descritto ai pazienti del suo ospedale, e i risultati erano stati eccellenti.  Nel suo comunicare questi successi all’opinione pubblica e alla comunità scientifica, non c’era stata da parte del medico nessuna forma di arrogante orgoglio: solo la soddisfazione di un lavoro ben fatto, la gioia di aver verificato che la Medicina, l’arte del curare, aveva ancora una volta trovato una soluzione a un grave problema, e che tante persone avrebbero potuto essere salvate e tornare ai loro cari e alla loro vita normale. C’era, in De Donno, la soddisfazione semplice del cristiano (e tale era il professionista mantovano), uomo di radicate convinzioni religiose, che può essere utile al prossimo. Chi lo ha conosciuto bene, lo descrive come un uomo retto, pulito, senza brama di denaro e di potere. Un uomo persino troppo ingenuo. Rimase sinceramente sbalordito di fronte all’accoglienza che la sua scoperta aveva trovato: sebbene dagli Stati Uniti ci fosse stato un vivo interesse per la sua metodica di cura, De Donno venne letteralmente gelato dal ministro Roberto Speranza e dai vertici sanitari, dal Comitato Tecnico Scientifico all’Aifa.

Le terapie col plasma immune vennero apertamente ostacolatefrenate, boicottate, fino a quando la sperimentazione venne avocata a sé dalle autorità sanitarie e proseguita esclusivamente in un centro clinico – a Pisa – dove le suddette terapie finirono per scomparire nel nulla. Dalla scorsa estate delle straordinarie cure con plasma immune non si sentì più nemmeno parlare, e tutta l’attenzione venne concentrata – come sappiamo bene – sui vaccini a venire.

Giuseppe De Donno proseguì il suo lavoro, umilmente, continuando a prendersi cura delle persone, in condizioni sempre più difficili. Gli avversari delle cure non si accontentarono di aver respinto questa possibilità di soluzione terapeutica: vollero schiacciare, deridere, umiliare colui che aveva trovato una strada verso la soluzione del problema-epidemia che non corrispondeva a determinati progetti.  Dovette subire gli insulti beceri del Web, dei social, in particolare della blogger Selvaggia Lucarelli, che lo insultò con rabbia volgare.  Il medico subì tutto questo, non senza sofferenza, non senza doversi trovare, ad un certo punto, a fare una difficile scelta professionale.

Nello scorso giugno De Donno, dopo tanti anni di carriera ospedaliera, decise di lasciare il suo posto di primario al Poma per andare a fare il medico di base, il medico di medicina generale, in un paese della campagna mantovana. Una scelta che lasciò molti stupiti. Possibile che dopo tanto lavoro, tante ricerche, tanti sforzi, De Donno lasciasse tutto? Forse il professionista intendeva ripartire da altri progetti, da portare avanti con le mani libere dai vincoli del rapporto di dipendenza ospedaliera. Si dice che il suo sogno fosse aprire un centro clinico privato, dove poter finalmente praticare le sue terapie con plasma immune. Un faro di speranza per molti malati, magari anche quelli che oggi dei sedicenti sanitari rifiuterebbero di curare. Un progetto affascinante, il suo, come quello di Padre Pio, un santo cui De Donno era devoto, che aveva voluto un ospedale inteso come casa di sollievo dalla sofferenza.

Questo sogno del dottor De Donno si è infranto in un pomeriggio di luglio, nella sua casa, in un modo tragico e assolutamente inaspettato. C’è chi dice che il medico fosse caduto in depressione dopo aver visto vanificati i propri sforzi di vedere applicate le sue metodiche terapeutiche, ma De Donno non si sentiva affatto un fallito, e la sua volontà di servire come medico il prossimo non era mai venuta meno.  Il nostro compito oggi quindi non deve essere solo quello di pregare per lui, e di onorarne la memoria, ma anche e soprattutto quello di raccogliere da lui il testimone e continuarne l’opera.

Paolo Gulisano

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