Fede e diplomazia

Fede e diplomazia: la storia insegna che non sempre stanno insieme

La tragica vicenda di Alfie Evans ha molte cose da insegnarci, ha diversi motivi su cui riflettere e, tra questi, uno che appare decisamente importante riguarda il ruolo della Chiesa.

Premesso che la vicenda del bambino di Liverpool è una questione prima di tutto umana, che risponde a obblighi deontologici che risalgono ai fondamenti stessi della Medicina, a partire dal Giuramento di Ippocrate che vieta di togliere la vita a qualsiasi essere umano, è innegabile che in questa vicenda la Chiesa cattolica è entrata in modo molto significativo.

Si potrebbe dire che è stata chiamata in causa. Il suo aiuto è stato invocato dai genitori del piccolo Alfie. Si potrebbe dire che lo stesso Thomas Evans e sua moglie abbiano dato una grande testimonianza – insieme ai loro amici e all’Alfie’s Army – di Fede: la fede profonda del popolo cattolico inglese, quel popolo che è stato temprato a suo tempo dalla persecuzione, o dal dramma dell’emigrazione forzata come per la sua componente di origine irlandese.

La vicenda di Alfie ha mostrato anzitutto un distacco tra questo popolo semplice, umile- appartenente soprattutto alla working class – e la gerarchia. Abbiamo visto la prudentissima posizione espressa dall’Arcidiocesi di Liverpool, che sembrava più preoccupata di prendere le distanze dall’”accanimento terapeutico” che di difendere la vita di un bambino dal tentativo di sopprimerla.

Abbiamo poi visto come la vicenda sia stata affrontata da Roma, quella Roma a cui gli Evans si sono rivolti con fiduciosa speranza, con l’amore che solo dei “papisti” inglesi possono avere verso il Bianco Padre di Roma.

La diplomazia vaticana – che rappresenta appunto il Sommo Pontefice nei suoi rapporti col mondo – non sembra essere stata all’altezza di queste trepidanti aspettative. Questa è l’impressione di moltissimi, di gran parte dell’Alfie’s Army: si poteva fare di più; si poteva fare meglio.

Non è la prima volta che la diplomazia vaticana scrive delle pagine poco gloriose della propria storia.

Forse la più brutta fu quella che venne scritta il secolo scorso, in Messico. Si tratta della Cristiada, la rivolta popolare cattolica contro la persecuzione messa in atto dal Governo massonico messicano.

Per tre anni, dal 1926 al 1929, si combattè per mettere fine alle torture, alle uccisioni, agli imprigionamenti arbitrari. A metà del 1929 le sorti del conflitto volgevano decisamente a vantaggio dei Cristeros. Fu a quel punto che venne ordito il tranello, l’odiosa, sleale trappola in cui caddero spontaneamente le gerarchie ecclesiastiche e in cui vennero trascinati, loro malgrado, i Cristeros. Era la trappola dei cosiddetti “Arreglos”. Appena il Presidente Portés Gil cominciò a rilasciare dichiarazioni in materia religiosa vagamente distensive, il Delegato Apostolico, Monsignor Leopoldo Ruiz, dal suo esilio ai New York, manifestò il proposito dell’episcopato messicano di collaborare col governo per la pacificazione del paese. Erano i primi segnali, da entrambe le parti, per raggiungere una tregua. Le ragioni non sembravano mancare: gli anni di guerra civile avevano devastato e impoverito il paese, paralizzato lo sviluppo economico e aumentato il caos al suo interno. I’instabilità del Messico, le turbolenze che si facevano sentire anche sui confini, mossero l’interesse di Washington ad esercitare le necessarie pressioni per eliminare la dannosa conflittualità messicana, ed adeguate pressioni vennero esercitate su entrambe le parti in causa.

Artefice principale delle mediazioni fu l’ambasciatore statunitense Morrow, finanziere appartenente al gruppo Morgan, il quale avviò le trattative con una fretta che rivelava abbastanza esplicitamente gli interessi commerciali della mediazione. Il “conto” per il suo intervento era infatti piuttosto salato: la modifica dell’Articolo 27 della Costituzione, che consentiva così la cessione per 99 anni del sottosuolo messicano a favore delle compagnie americane, e l’apertura di una filiale del Banco di New York a Città del Messico.

D’altra parte, l’intero paese era stremato, e desiderava la fine degli eccidi e delle miserie, ma anche il ristabilimento della giustizia. Fu proprio questa struggente fame e sete di Verità e Giustizia che la Gerarchia ignorò. La Chiesa messicana trattò la pace, proprio mentre la causa dei Cristeros, che in suo nome avevano combattuto una impossibile battaglia, sembrava prevalere. Tutto faceva sembrare vicina la fine del Partito Rivoluzionario al potere. Ma i poteri forti cui abbiamo accennato avevano deciso diversamente. I Cristeros non dovevano vincere.

La Chiesa tuttavia, e i suoi fedeli l’avrebbero seguita, avrebbe potuto scegliere di resistere ad oltranza, anche contro le pressioni, anche andando contro il corso della storia, ma non lo fece, e la scelta, che apparve subito non felice per le immediate conseguenze a carico dei cattolici che deponendo le armi si esposero ad un lungo genocidio nascosto, lasciò delle tracce profonde nel cattolicesimo messicano. Accettare la pace proposta dal Governo significò perpetuare la permanenza al potere per i decenni a venire di quella classe dirigente, la stessa che aveva ordinato i massacri e le persecuzioni, senza che in essa cambiasse nulla, se non la strategia e le modalità di azione.

Più che l’episcopato messicano, la responsabilità di questo disastro fu da attribuire alla Segreteria di Stato Vaticana, guidata allora dal cardinale Gasparri, un uomo decisamente incline ai compromessi, ai concordati. Era stato infatti l’artefice da parte vaticana dei Patti Lateranensi.

Così, il 29 Giugno 1929, festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, le chiese del Messico si riaprirono al culto, le campane tornarono a suonare in tutto il paese, la Messa si celebrò ovunque, suscitando fervore ed entusiasmo nella popolazione. I Cristeros deposero le armi: discesero dai monti, sciolsero i battaglioni che per tre anni avevano tenuto testa alle truppe dl Calles e Obregòn, e tornarono ai loro villaggi e alle loro città. Il ritorno (provvisorio) della pace non attenuava nei loro cuori l’amarezza per la mancata vittoria: i nemici di sempre rimanevano ai loro posti di comando, e la tregua, così frettolosamente raggiunta in quel fatidico 1929 che, guarda caso, vide il crollo della Borsa di Wall Street e l’inizio della grande recessione economica, sapeva troppo di compromesso in nome del petrolio degli affari. Inoltre l’intransigenza del governo sui principi anticattolici e giacobini della Costituzione non poteva essere certo un indice di buona volontà. Portés Gil dichiarò da parte sua che, insistendo nell’applicazione stretta, benché non repressiva, della legge, assicurava di non voler intervenire negli affari spirituali della Chiesa. In pratica la Costituzione venne fatta accettare, nella lettera e nello spirito, all’Episcopato che tre anni prima l’aveva decisamente rifiutata. Molti esponenti dei Cristeros si sentirono giocati: non era stato firmato un accordo, ma una resa. Portés Gil aveva semplicemente concesso la libertà di partecipare alla Messa e di insegnare il catechismo: un po’ poco per chi, in nome della libertà di essere cattolico, aveva sacrificato la famiglia, i beni, la propria vita. Né d’altra parte cessarono del tutto, dopo il 21 giugno, le sanzioni contro sacerdoti troppo “zelanti””: tre Vescovi – di Guadalajara, di Durango e di Huejutla – furono espulsi dal Messico. Numerosi membri del clero o laici noti per il loro impegno anti-governativo venne ro esiliati. Peggio ancora: molti dei Soldati di Cristo Re, per i quali erano state pattuite garanzie di amnistia, appena deposte le armi vennero arrestati e fucilati. Non pochi paesi che avevano dato loro ospitalità vennero saccheggiati e i sacerdoti ritornati nelle loro parrocchie divennero bersagli della mai sopita ostilità nei loro confronti. La Chiesa riottenne la libertà, ma si trattò di una libertà vigilata. Le restrizioni all’attività pastorale e caritativa della Chiesa cattolica apparvero subito in stridente contrasto con la massima libertà lasciata alle sette protestanti di fare proselitismo. Portes Gil poteva dichiarare trionfante ai fratelli massoni di essere riuscito finalmente a sottomettere alle leggi la Chiesa. La Chiesa era stata chiamata dallo Stato a rimuovere ogni residuo pericolo di “fanatismo”, in cambio di una mal tollerata sopravvivenza.

Il governo radicale non aveva rinunciato a niente della sua Costituzione, già ritenuta dai cattolici iniqua e tirannica, e il maggiore pericolo per il regime, rappresentato dall’ Esercito dei Liberatori, era scomparso, avendo i Cristeros generosamente deposte le armi su invito della Chiesa, della quale essi erano stati i difensori e i paladini.

Paolo Gulisano

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