I Maledetti intellettuali affascinati dai fascismi

Un secolo fa la conclusione della Prima Guerra Mondiale, con la distruzione di antichi imperi come quello asburgico e l’emergere di nuovi stati nazionali e di altrettanti nuovi nazionalismi, lasciò l’Europa in una condizione di grave crisi. Per molti intellettuali fu sempre più chiaro che il conflitto ideologico combattuto per tutto l’800 contro la Tradizione (Chesterton scrisse che nell’800 la Chiesa aveva dovuto difendere la Tradizione, mentre nel ‘900 avrebbe dovuto difendere la Ragione), si era concluso con il trionfo di ideologie dissolutorie dell’uomo, come la Rivoluzione Bolscevica, e con il dilagare nella cultura del positivismo progressista. Prese dunque il via un movimento di risposta, di reazione, che in alcuni Paesi divenne una sorta di rivoluzione di senso contrario, una rivoluzione conservatrice.

Fu un filone culturale ampio e composito, che il giornalista Andrea Colombo esamina nel suo recente volume I Maledetti, edito da Lindau. E’ una galleria di sedici personaggi , raccontati anche attraverso aneddoti curiosi, di quei protagonisti del mondo della cultura che si schierarono sul fronte conservatore, a volte aderendo a movimenti che erano andati ben oltre una posizione conservatrice, assumendo le caratteristiche dei “fascismi”. Fu così per la Guardia di Ferro romena, cui aderirono Mircea Eliade ed Emil Cioran, e soprattutto in Italia, dove un possibile movimento culturale e politico cattolico e anti-rivoluzionario venne di fatto reso impossibile dal Fascismo, una rivoluzione che era un coacervo di istanze ideologiche politiche che andavano dal Socialismo al Risorgimentalismo mazziniano al nazionalismo all’imperialismo. Erano figli dell’Interventismo, ma anche di inquietudini culturali e artistiche.

Ma cosa li aveva spinti a parteggiare per la dittatura, in un periodo così drammatico e ricco di tensioni? Sono diversi gli elementi che hanno portato una nutrita pattuglia di scrittori, scienziati, artisti, cineasti, musicisti a indossare la camicia nera. Prima di tutto la consapevolezza che l’800, il secolo dei buoni sentimenti, del liberalismo, delle democrazie, della speranza ottimistica in un progresso illimitato, era definitivamente tramontato. Dalle macerie della Prima Guerra Mondiale doveva sorgere un mondo nuovo, radicalmente trasfigurato.

Le radici dell’ideologia mussoliniana si trovavano già nel manifesto fondativo del futurismo lanciato sulle colonne del Figaro nel 1909: la «guerra sola igiene del mondo», il «disprezzo delle donne» e di «ogni viltà opportunistica o utilitaria», l’esaltazione delle «grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa» e del «gesto distruttore», anticipavano la mentalità squadrista. Anche chi, come Giovanni Gentile, non aveva partecipato in prima persona alla Grande Guerra, contribuì con i suoi scritti a creare quel mito di Vittorio Veneto su cui si alimenterà il fascismo. «Benedetta la guerra», scriveva, «con tutti i suoi dolori, se potrà segnare, come segnerà certamente, l’inizio di una nuova storia». Grazie al conflitto, «tutta l’Italia inferma, vecchia e tarlata» sarà «spazzata via» dall’«Italia vera, su cui bisogna contare». Ecco perché per Gentile la guerra si rivelava «un dramma divino», «uno sforzo in cui tutto, il Tutto è impegnato», «un atto assoluto». Guerra totale quindi, metafisica, che «dovrebbe purificarci tutti».

Se questa fu la “rivoluzione italiana”, ben diverso fu quello che accadde nel resto d’Europa. Dalla Francia alla Germania fino all’Inghilterra, i primi a intuire che il vecchio mondo borghese e romantico dell’800 era finito, furono gli artisti e gli scrittori delle avanguardie. Futuristi, cubisti, espressionisti, dadaisti, costruttivisti, tutti accomunati dal furore iconoclasta di una rivolta totalizzante che avrebbe spazzato via le certezze del passato. La pars destruens, la tabula rasa di questi  innovatori dell’immaginazione, dall’espressionista Gottfried Benn, al vorticista Wyndham Lewis al poeta Ezra Pound, allo scrittore romantico Robert Brasillach, fino al Premio Nobel norvegese Knut Hamsun, si incontrò con le suggestioni e le seduzioni dei fascismi, con la loro carica di vitalismo, irrazionalità, giovanilismo. E molti caddero anche nella tentazione diabolica dell’antisemitismo, la soluzione semplicistica ai drammi della modernità che individuava negli Ebrei il capro espiatorio della crisi. Dopo la sconfitta dei vari fascismi, questi intellettuali subirono l’epurazione, la damnatio memoriae, qualcuno, come Brasillach, venne giustiziato da un plotone d’esecuzione. Qualcuno riuscì a riciclarsi, come Konrad Lorenz, che abbracciando i miti del progressismo scientista videro aprirsi davanti le porte dell’Accademia. Qualcuno, infine, come Thomas Stearns Eliot, autentico conservatore che non aveva subito il fascino oscuro dei totalitarismi, e che aveva visto nel Cristianesimo la sola, vera risposta alle domande del cuore dell’uomo, sopravvisse come testimone lucido e solitario, mentre il suo sogno di restaurare una società tradizionale si infrangeva di fronte all’inarrestabile evoluzione del progresso e della massificazione.

Paolo Gulisano

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