Il ritratto di Oscar Wilde che la vulgata gay nasconde

Il recente film Happy Prince: l’ultimo ritratto di Oscar Wilde, scritto, diretto e interpretato da Rupert Everett, uno dei nomi più importanti del cinema britannico, ha il grande merito di presentarci gli ultimi giorni di uno dei più celebri e celebrati scrittori degli ultimi due secoli mostrandocelo in tutta la sua interezza, con tutte le sue contraddizioni, con la sua fragilità di fronte alle tentazioni, ma anche con quel desiderio di Dio che lo portò, prima di morire, a convertirsi al Cattolicesimo e a chiedere i Sacramenti. 

Un aspetto, quello della religiosità di Oscar, che è spesso censurato da chi lo vuole ridurre a semplice icona gay. 

Mentre era detenuto nel carcere di Reading, condannato a due anni di lavori forzati, lesse numerose opere religiose, tra cui tutte le opere di John Henry Newman. In carcere si riconciliò con la moglie: si abbracciarono dopo tanto tempo, parlarono tutto il tempo possibile, soprattutto dei figli e Oscar si raccomandò che la moglie non li viziasse, e li educasse in modo che qualunque cosa facessero, anche la più sbagliata, non mentissero e tornassero comunque da lei per raccontargliela: solo così poteva insegnare loro cosa fosse la redenzione.
Wilde aveva avuto modo di riflettere profondamente sulla sua storia, e sul suo rapporto con Bosie Douglas, il giovane che l’aveva condotto alla rovina. Scrisse una lunga lettera all’ex amico, che anni dopo venne pubblicata col titolo De Profundis. . Era davvero il grido di dolore di Oscar dal profondo delle sua notte più oscura, un’oscurità che tuttavia non aveva preso la sua anima. Anzi: dopo molto tempo Oscar sembrava riuscire a scorgere dentro se stesso, a leggere tra le righe della sua vita.

Scrisse: “Ora trovo nascosto in fondo alla mia natura qualche cosa che mi dice che nel mondo intero niente è privo di significato, e tanto meno la sofferenza. Quel qualche cosa nascosto in fondo alla mia natura, come un tesoro in un campo, è l’umiltà. È l’ultima cosa che mi sia rimasta, e la migliore di tutte; la scoperta finale a cui sono giunto; il punto di partenza per una evoluzione nuova”.
Dopo la scarcerazione, Oscar trascorse due anni di vagabondaggio, di confusione, di solitudine. Rivide purtroppo Bosie, che lo portò con sé in Italia, a Napoli, dove Oscar vide per l’ultima volta la sua natura malvagia in azione, e chiuse definitivamente il loro rapporto. Non rivide più la moglie, che morì a Genova per gli esiti di una lesione alla spina dorsale. Infine trascinò la sua vita, segnata ormai dalla malattia, a Parigi.

Venne raggiunto a Parigi dal vecchio amico Robbie Ross, che era stato il suo primo amante di sesso maschile. Robbie, tuttavia, proprio grazie ad Oscar aveva scoperto il Cattolicesimo, si era convertito e aveva mutato radicalmente la propria vita. Robbie ora era per Oscar “solo” un amico, un’amicizia profonda e preziosa. Con Ross parlava dei suoi figli, che l’amico visitava regolarmente, e fu felice di sapere che uno di loro, Vyvyan, era diventato cattolico.

Ora voleva anche lui compiere finalmente il grande passo, dopo aver atteso tutta la vita. Robbie fu sorpreso e commosso, e sembrava quasi non credergli. Gli chiese se fosse proprio convinto.  “Il cattolicesimo è la sola religione in cui morirei” aveva detto dopo il suo rilascio dal carcere, ed ora, per una volta, voleva essere di parola.

Aveva vacillato tutta la vita, mentre intorno a lui i suoi amici, uno dopo l’altro, si convertivano: Robbie, Gray, Beardsley, e infine suo figlio.
Oscar morì con questa consolazione. Robbie quando vide che stava iniziando l’agonia si precipitò a cercare un sacerdote. Andò presso un vicino convento di padri passionisti, e per quanto incredibile possa sembrare, vi trovò un religioso irlandese, padre Cuthbert Dunne. 
Oscar ricevette i Sacramenti dalla mani di un connazionale, un uomo dell’Isola del Destino che la Provvidenza aveva voluto che incontrasse nel momento finale. Perse coscienza mentre nelle sue mani stringeva il rosario di padre Cuthbert. 
Era il 30 novembre del 1900, ed Oscar Wilde moriva in pace.

Paolo Gulisano

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