La letteratura della gioia: elogio di Robert Louis Stevenson. Dialogo con Paolo Gulisano

Robert Louis Stevenson, in verità, non morì mai. A Vailima, nelle Samoa, ritornò bambino, per sempre, il figlio del virtuoso architetto di fari, uno che ama le isole e l’estremismo della luce, l’avventatezza sgranata in avventura. Come i bramini, i druidi, gli artefici del fuoco, Stevenson era una creatura priva di futuro, perciò pronta a tutto: “Il futuro esercitò un perentorio richiamo nei miei confronti, mi fece voltare indietro come fosse una voce che piange e supplica; e io ebbi paura e tremai come in bilico sopra una lama o come un bambino che si getti nel mare”, scrive in Memoirs of an Islet.

Attraversò fette di Francia in canoa, si sposò a San Francisco, attraversò gli oceani insegnandoci che ogni grande scrittore, infine, ha il sole sepolto nel Pacifico. Amico di Henry James, riconobbe il genio di Walt Whitman – “mi ha capovolto davanti agli occhi il mondo intero” –, fu idolatrato da Jorge Luis Borges, che lo definiva “uno dei personaggi assoluti, adorabili ed eroici della letteratura inglese”. Secondo Alessandro Ceni, che per Einaudi ha tradotto I racconti di RLS, “è evidente che con Stevenson siamo in compagnia di uno dei maggiori esponenti di una letteratura che crede nell’illustre umano e nella sua impresa (che annovera tra i coevi Melville e Conrad, che conosce grandi epigoni in D.H. Lawrence, Henry Miller, Jack Kerouac, per restare nell’ambito della letteratura inglese), di quella che definirei ‘letteratura del coraggio’”. Il direttore di un giornale per cui ho lavorato quattro vite fa riteneva l’epitaffio che Stevenson pretese – con la consueta, plumbea gentilezza – fosse inciso sulla sua tomba la poesia più bella mai scritta in ogni lingua. Esagerava. Un verso, in particolare, diventò il suo motto: Glad did I live and gladly die. Era un uomo silenzioso, a tratti generoso, che sapeva essere cattivo; portava i capelli ricci. Va da sé che Stevenson si è avventato nella vita facendone un’avventura (lo dice anche Ceni: “Stevenson è scrittore di avventure; ma ci sono sulla faccia della terra avventure più compiute della nostra stessa vita?”); la sua biografia, perciò, è consustanziale all’opera. Quella di Paolo Gulisano – che ha agio nell’insinuarsi nelle vite altrui e che ho chiamato al dialogo – Robert Louis Stevenson. L’avventura nel cuore (Edizioni Ares, 2022), dunque, è una biografia spigliata, spesso felice, senza troppi vizi romanzeschi, ed è anche un compendio utile per penetrare nell’opera di RLS. C’è, in effetti, uno stralunato gemellaggio tra i libri di Stevenson e la sua vita; quasi che lo scrittore si affrettasse a realizzare ciò che aveva scritto nell’esistenza cruda, acritica, autentica. John Singer Sargent era il pittore prediletto dall’alta società anglofona: conosceva il regno delle ombre e aveva un talento per i particolari proprio del romanziere. Nel 1885 dedica un ritratto epifanico a Stevenson. Lo scrittore si aggira in una stanza dalle pareti rosse, la moglie è adagiata su una poltrona, in una voliera di veli, quasi invisibile. Lui è pallido, magro, perennemente emaciato, si tocca i baffi; è inquieto, sembra capace di tutto, di scappare dalla porta semiaperta o di estrarre una pistola. C’è qualcosa di selvatico e indifeso in Stevenson, lì; sembra un ghepardo che per un giorno abbia appreso la stazione eretta.

Nell’introduzione racconti che la biografia su Stevenson nasce come una ‘sfida’ che ti ha lanciato il Cardinal Biffi. “L’isola del tesoro è una metafora del Vangelo”, ti diceva, in pressing. Cosa intendeva dire? 

Il cardinale Giacomo Biffi fu uno dei più interessanti uomini di Chiesa dell’ultima parte del ’900. Teologo di grande robustezza dottrinale, fu un vero e proprio Defensor Fidei. Un apologeta arguto e pieno di umorismo autenticamente cristiano, un uomo dalla cultura sterminata, profondo conoscitore della letteratura russa, come di quella italiana e quella inglese. Sua Eminenza aveva inserito anche me tra le sue letture: i saggi che avevo dedicato ad autori a lui molto cari lo avevano portato a stimarmi, e volle invitarmi a trovarlo. Nel corso di un indimenticabile pomeriggio trascorso a parlare di Fede e di cultura, ad un certo punto mi disse che avrei dovuto dedicare un libro ad un altro autore a suo avviso estremamente importante: Stevenson. Fui molto stupito: Stevenson non era – come Chesterton o Tolkien – un autore cattolico. Era un calvinista diventato agnostico. Ma il cardinale, con un fare un po’ sornione, mi invitò ad indagare bene su di lui, a partire dal suo capolavoro, L’Isola del tesoro.  Nel corso del tempo credo di aver capito cosa intendesse suggerirmi, dicendomi che quel libro era una metafora del Vangelo, e potremmo dire della stessa vita cristiana e umana: noi siamo alla ricerca di un tesoro; la nostra vita è una avventura tesa a trovare le risposte alle nostre domande. Spesso abbiamo in mano delle mappe sbagliate, e non troviamo, ma il tesoro ci aspetta. Quaesivi, et tandem inveni.

Qual è l’evento biografico ‘scatenante’ nella vita di Stevenson, quello che più di altri lo racconta, lo sintetizza? 

Il segreto dell’arte di Stevenson sta nella sua infanzia, nella sua lotta contro una malattia che non gli tolse mai la gioia di vivere. L’infanzia di un bambino scozzese che andava a scoprire gli echi antichi degli eroi della sua terra che si ritrovano in tutte le avventure narrate da Stevenson, da La Freccia Nera ai romanzi di ispirazione scozzese, storie che affondano le loro radici nelle Ballate tramandate di generazione in generazione, storie di eroi e di traditori, di amore e di onore, storie di avventure che diventano dei veri capolavori allegorici. Storie di gente che non si arrende, come non si arrese lui nell’infanzia.

Dici Stevenson “espressione di una Letteratura della gioia”: cosa significa? 

Ho preso questa espressione da Chesterton, che di Stevenson fu uno dei più acuti esegeti. In un saggio proprio dedicato allo scrittore scozzese, Chesterton scriveva che nello scenario culturale contemporaneo (si era agli albori del ’900) si sentiva la mancanza di una Letteratura della gioia. Ovvero una letteratura che trasmettesse non solo le angosce esistenziali dell’uomo moderno, le sue domande a volte disperate di significato, ma anche le risposte, ovvero quella positività che è dentro l’esperienza umana che può aiutare ad essere felici. Una letteratura che esprima gioia, a costo di rischiare di sembrare infantile, dato che la gioia è da molti vista come un sentimento puerile. In questo straordinario saggio, Stevenson emerge come un testimone inconsapevole di verità. Di più, Chesterton lo considera alla stregua di un teologo cristiano che restituisce nei suoi personaggi votati all’avventura l’inquietudine della Caduta e la moralità della ricerca di senso in un mondo che attende di essere esplorato. L’intera sua opera appare a Chesterton una difesa della possibilità di essere felici, e una risposta alla domanda di felicità dell’uomo, che può essere assolta solo ritornando piccoli e capaci di stupore. In fondo è la spiegazione di quel passo enigmatico del Vangelo: se non ritornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli.

Qual è il testo meno consueto che rivela lo Stevenson narratore, quello da cui partire per intraprendere la scoperta di uno scrittore tanto felice da apparire facile? 

Credo che il testo che maggiormente si avvicina e risponde al tuo quesito sia The Master of Ballantrae. Il tema stevensoniano dell’avventura – per ceti versi così solare e “facile”,  si arricchisce di profonde analisi psicologiche. È la storia di un lungo conflitto attraverso gli anni tra due fratelli eredi di una famiglia nobile scozzese ai tempi dell’ultimo sfortunato tentativo di insorgere e conquistare la libertà. È un’opera che sposta le battaglie che RLS aveva raccontato nella Freccia Nera o nell’Isola del Tesoro all’interno dell’anima stessa dell’uomo; è un romanzo di sconfitti, dove emerge il tema del doppio, e della rivalità, che si incontra in quasi tutte le opere di Stevenson. Nel Master emerge più che altrove la sua straordinaria abilità narrativa.

Mi ha sempre sorpreso l’amicizia tra Stevenson e Henry James: difficile pensare (anche iconograficamente, a guardare i ritratti a loro dedicati da Singer Sargent) a scrittori così diversi… Come possiamo spiegarla? 

Hai ragione, erano dissimili, ma in fondo avevano anche elementi in comune. James era un americano che guardava affascinato all’Europa, tanto da volere e ottenere la cittadinanza britannica; Stevenson era un britannico che avrebbe voluto una ipotetica cittadinanza scozzese, ma che pur radicato nella sua piccola terra aveva uno sguardo rivolto ad abbracciare il mondo, fino ai suoi estremi confini delle isole dell’Oceania. Avevano in comune un certo stile, una delicatezza, un rispetto per le persone che ne faceva due autentici gentiluomini, nella vita e nell’arte. Più classico James, più originale Stevenson, ma entrambi uomini dal cuore gentile.

Che ‘morale’ c’è – se c’è, pur scevra da terrei moralismi – dietro l’opera di Stevenson? 

Stevenson riuscì nelle sue opere ad evitare di scivolare nel moralismo in virtù della sua profonda sensibilità umana, della sua levità che era tutt’altro che superficialità, dalla sua gioia di vivere che gli aveva fatto accettare serenamente la sua fragilità fisica, che lo accompagnò fino ad una morte avvenuta a soli 44 anni. Fu però un profondo esploratore dell’animo umano, anche delle sue zone più oscure, e ci ha lasciato un’opera come Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde che è un viaggio inquietante negli abissi della mente e del cuore umano, là dove si può incontrare il proprio doppio, e lottare con esso. E lì può verificarsi la fine dell’avventura, e l’inizio di incubi distopici. In queste pagine non troviamo moralismo a buon mercato, ma una seria indagine, e un allarme quasi profetico. .

Ha avuto ‘eredi’ Stevenson? Perché leggerlo ancora, oggi?

“He was inexhaustible, he was brilliant, he was romantic, he was fiery, he was tender, he was brave, he was kind” Così venne definito dal suo primo biografo, che era suo cugino Thomas Graham Balfour. Louis era dunque, ai suoi occhi, instancabile, brillante, romantico, fiero, coraggioso, tenero e gentile. Robert Louis Stevenson è uno degli autori classici usciti da quel particolare crogiolo artistico che fu l’800, ed è difficile trovare nel secolo successivo un narratore che possa essere definito suo erede. L’avventura, nel corso del ’900, è profondamente cambiata. I suoi elementi principali, il mistero, il viaggio, l’impresa, si sono trasferiti in altri generi, tra cui il Giallo o il Fantasy. Da questo punto di vista un erede potrebbe essere considerato il grande Tolkien. Ma se invece si deve pensare ad un autore brillante e suggestivo, in grado di stupire il lettore come seppe fare RLS, con le sue divertenti arditezze, stravagante e allo stesso tempo ricco di rimandi colti, direi che un continuatore di Stevenson è stato Jorge Luis Borges. Che non per niente guardò a Stevenson con ammirazione.

Paolo Gulisano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *