Maggiolini, vescovo fuori dal coro

L’11 novembre di dieci anni fa si spegneva una delle figure più significative del mondo cattolico italiano degli ultimi trent’anni: monsignor Alessandro Maggiolini, teologo, giornalista, vescovo. Un vescovo decisamente “fuori dagli schemi”, come recita il sottotitolo della biografia che gli ha dedicato il giovane studioso Daniele Premoli, Alessandro Maggiolini, edita da Ancora.

Un vescovo che fu un vero segno di contraddizione: fu tra i primi (e pochi) prelati della Conferenza Episcopale Italiana a vedere il lato oscuro dell’emigrazione di massa, a porsi il problema del confronto con l’Islam, a denunciare la secolarizzazione dilagante e la crescente insignificanza dei cattolici nella società e nella politica.

Era stato definito “Il Vescovo della Lega” negli anni ’90, quando con una delle sue proverbiali, acute battute aveva detto che l’Unità d’Italia non era un dogma di Fede. Era stato etichettato come integralista, conservatore, ma fu soltanto (e scusate se è poco) un uomo di Dio, innamorato di Gesù Cristo, pronto a testimoniarlo sempre, dal pulpito come dai tanti libri che scrisse, o dalle frequenze della Radio, ove per anni condusse una seguitissima trasmissione, Ascolta si fa sera, che ogni sera dopo il Giornale Radio delle 19 scaldava i cuori degli ascoltatori.

Monsignor Maggiolini, milanese di Bareggio, godette della fiducia e della stima di due grandi pontefici, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il primo lo volle vescovo, prima a Carpi e poi a Como. Lo chiamò anche – unico italiano- a far parte della commissione di esperti che scrisse il Catechismo della Chiesa Cattolica, uscito nel 1992, un testo che nella Chiesa attuale sembra purtroppo dimenticato, se non volutamente ignorato.  Il gruppo di esperti- teologi e vescovi- di cui Maggiolini faceva parte erano coordinati dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’allora cardinale Joseph Ratzinger. Con lui Maggiolini mantenne un rapporto di collaborazione e di rispettosa amicizia anche quando questi divenne papa Benedetto XVI.

Un altro grande amico del prelato lombardo fu il cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo di Bologna. Erano quasi coetanei (Biffi del 1928 e Maggiolini del 1931) cresciuti entrambi nell’alveo della grande tradizione ambrosiana, uomini di grande fede e grande cultura, allievi di quell’eccezionale maestro che era stato il cardinale Giovanni Colombo. Biffi e Maggiolini condividevano uno stile intelligente e umoristico: un umorismo tagliente anche se sempre rispettoso dell’interlocutore, ma prima di tutto rispettosi della verità. Uno stile che potremmo definire chestertoniano. Erano anche maestri di autoironia: “senza un po’ di umorismo anche un vescovo diventa pericoloso”, disse un giorno Maggiolini, dopo essere stato “ridotto allo stato episcopale”, come ebbe a dire rincarando ulteriormente la dose di humour. 

Quando il monsignore-giornalista aveva ricevuto l’ordinazione episcopale nel bel Duomo di Carpi, si era sentito dire dal cardinale Baggio : “Tu agirai e parlerai in persona Christi, e ti impegnerai solennemente a custodire puro e integro il deposito della fede, secondo la tradizione della Chiesa, responsabilità che assumerai in prima persona”. Monsignor Maggiolini prese queste parole estremamente sul serio, e diventò un apologeta appassionato, documentato, tanto più credibile in quanto assolutamente credente in quella fede che predicava. Era una personalità forte che non passava inosservata e che lasciava sempre il segno. Amava dibattere, confrontarsi, e non si sottraeva allo scontro, se necessario. Non solo con quelli che potevano essere considerati degli avversari, ma anche con gli amici. Non le mandò a dire nemmeno a don Giussani, il fondatore del potente (e a volte imbarazzante) movimento di Comunione e Liberazione. Fin dagli anni ’80 disse e scrisse in un linguaggio ecclesialmente scorretto. Quali sono le priorità di un pastore, si chiese in un articolo del 1985. “Dovrei parlare in primo luogo di droga e delinquenza. Poi di Terzo Mondo. Poi di disuguaglianza e ingiustizia. Poi di disarmo eccetera. Questioni sacrosante. Non so se percepite in collegamento con Gesù Cristo. (…) Di questo passo la fede finisce per incidere sempre meno sulla vita. “ Per il vescovo che da Carpi era poi passato nel 1989 a Como, la fede non deve rinunciare a dare un proprio giudizio sugli avvenimenti e non si deve ritrarre dall’impegno di rendere sempre più umana la società, con la certezza che “Cristo non ha bisogno di mendicare nulla dalle ideologie per redimere e promuovere l’uomo in tutte le sue dimensioni”. Disse chiaramente che i cattolici  non devono essere ossessionati dal rincorrere il nuovo e il facile, ma devono offrire una proposta di vita limpida e risoluta, offerta con cordialità. Parole che ancora oggi- in particolare nell’odierna crisi della Chiesa disorientata e confusa- appaiono come straordinariamente lucide e vere. Per monsignor Maggiolini la fede non doveva restare un fatto intimo, magari anche un po’ folkloristico, ma doveva farsi cultura.   Le prese di posizione di questo grande e schietto comunicatore non potevano piacere a tutti, tantomeno ai cristiani impegnati nell’autodissoluzione della propria identità. Alla fine degli anni ’90 il vescovo affrontò profeticamente, tra i primi a farlo, il tema dell’immigrazione. “Il dovere di ospitalità- scrisse nelDiscorso alla città” del 1999- non va confuso con un presunto dovere di lasciar invadere la nostra terra”. E ancora: “I clandestini non sono tutti e per principio esuli perché perseguitati politici. Non vale né ignorare il fenomeno, né reagire a esso in modo risentito, globale e irrealistico, né idealizzarlo quasi una situazione multietnica fosse positiva e migliore e anzi ottima per principio”. Riflessioni che sono state dimenticate se non addirittura ribaltate dai più recenti  indirizzi episcopali, appiattiti sulla vulgata globalista, o teorizzanti le opportunità del   “meticciato” .

Monsignor Maggiolini difese sempre il diritto/dovere dei cattolici di annunciare Cristo, di testimoniarlo nella società come Colui che porta la salvezza, cioè la risposta alle domande che sono nel cuore di ogni persona. Per questo vedeva il maggior pericolo per la fede cattolica non tanto nell’Islam, quanto nella secolarizzazione, Nell’avanzare di una cultura laicista sempre più intollerante. Due anni prima di morire, in un’intervista, parlò della gravità della situazione italiana, che descriveva “di un’incoscienza tale per cui siamo di fronte a una sorta di suicidio nazionale”. Un’Italia in preda ad un’ansia di suicidio, sul baratro e preoccupata solo di divertirsi. “Sazia e disperata”, avrebbe detto il suo amico Giacomo Biffi. “Quando sento che per descrivere un laico si dice. È uno che vuole l’aborto, l’eutanasia…Uno così si presenta come paladino del futuro, ma in realtà è un becchino. Lo vuole distruggere, il futuro. E’ il pensiero debole, il dubbio su tutto, il rifiuto di qualsiasi norma morale che l’uomo contiene in sé e gli indica gli orientamenti di fondo. Io dico che una civiltà così ha soltanto il dovere di morire. Anche il diritto, ma soprattutto il dovere. Perché non si capisce cosa stia facendo di utile”.

Un messaggio che può sembrare pessimistico, ma che in realtà- a dieci anni dalla morte di questo grande uomo di Chiesa, ci appare semplicemente come realistico. E se è vero che già dieci anni fa monsignor Maggiolini scriveva che stiamo vivendo il “tempo dell’agonia della Chiesa”, egli fino all’ultimo invitò ad avere coraggio, e a sforzarci di tenere viva la fiamma della fede.

Paolo Gulisano

La Verità – pag. 19 – 11/11/2018 

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