Non c’è altra via che la notte

Luca Fumagalli è un giovane e brillante studioso della cultura britannica, in particolare del cattolicesimo inglese. In particolare, ha approfondito la straordinaria figura di padre Robert Hugh Benson, autore del capolavoro Il Padrone del mondo e altri saggi e romanzi storici di rilievo. È animatore del sito (e casa editrice) Radio Spada.

La sua ultima fatica – in una produzione che nonostante la giovane età è già molto abbondante – è un volume sulle distopie, ovvero le utopie negative. Il termine “utopia” fu coniato come neologismo da San Tommaso Moro, autore nel 1516 della prima opera di tale genere, intitolata appunto Utopia. L’interessante saggio di Fumagalli ripercorre dunque la storia della distopia attraverso le opere letterarie di lingua inglese, dai precursori- Moro appunto- fino al Burgess di Arancia meccanica.

Se l’utopia era nata come “un luogo che non c’è”, magari ideale, la distopia rappresenta un tempo, un futuro prossimo venturo, dai tratti inquietanti. Un genere letterario che spesso ha avuto una posizione critica nei confronti del progresso tecnologico, ovvero della capacità dell’uomo di controllarlo e di farne un uso intelligente.

Dopo l’ubriacatura di ottimismo scientifico dell’800, dopo che Herbert George Wells aveva descritto i primi uomini sulla luna, la guerra dei mondi, la macchina del tempo e l’ennesima isola misteriosa, quella del dottor Moreau, visionario scienziato, il ‘900 è il secolo dove in letteratura troviamo le grandi distopie. Romanzi inquietanti, dove il futuro è presentato come uno scenario da incubo, funestato da dittature e da trasformazioni radicali non solo del mondo, ma dell’uomo stesso.

La più famosa di queste distopie – su cui l’attenzione di Fumagalli si sofferma con cura – è probabilmente 1984 di George Orwell, un autore inglese. In realtà, tutti i principali autori di utopie del ‘900 sono inglesi, con le eccezioni dell’anglo-irlandese C.S. Lewis, e dell’americano (di origini irlandesi) Cormac McCarthy.

Dalla terra di Tommaso Moro sono venute diverse ipotesi su quello che potrebbe essere il destino del nostro mondo, o su quali terre mitiche e nascoste ancora guardare, e non è certamente un caso. È quasi come se le suggestioni e le domande poste dal grande statista londinese attendessero ancora risposte. 1984, che Orwell scrisse nel 1948 (un piccolo espediente letterario quello dell’inversione delle ultime due cifre) ci mostra uno scenario di mondo futuro dominato da un totalitarismo cupo, terribile, molto simile allo stalinismo ma, in qualche modo, anche ai fascismi, una sorta di sintesi di quelli che erano stati i totalitarismi dominanti negli anni Trenta.

In quegli anni Orwell, pseudonimo di Eric Blair, inglese nato nelle colonie, esattamente nel Bengala, che era un giornalista militante nella sinistra britannica, era andato volontario nella guerra di Spagna, e lì vide gli orrori, non solo compiuti dai franchisti, ma anche dai repubblicani, che si accanivano soprattutto contro religiosi e religiose innocenti, arrivando a fare tra di essi circa settemila vittime. Tornato in Inghilterra totalmente disincantato, cercò di raccontare le storture delle ideologie, a cominciare da quella comunista, sotto forma di racconto allegorico, quasi una fiaba: La fattoria degli animali, una satira brillante e dolorosa del comunismo sovietico. Infine, portando alle estreme conseguenze l’avversione per il totalitarismo, pubblicò 1984.

La condanna di tutte le ideologie totalitarie garantì maggior fortuna a questo libro, considerato, nella letteratura utopistica del Novecento, il classico per eccellenza.  Gli elementi positivi e affascinanti di questo romanzo, però, stanno nell’esaltazione dell’individuo che si oppone al sistema, un uomo comune che si erge, con la sua piccola e banale vita, a contestare, a fermare il potere devastante del Grande Fratello. Orwell non ha una prospettiva religiosa, bensì scettica, che parte dal desiderio di libertà dell’uomo, del piccolo uomo comune che cerca di sopravvivere al peso schiacciante del dominio esercitato dal Grande Fratello. Un potere impersonale, senza nome e senza volto, semplicemente l’occhio che ti scruta ovunque vai, in tutti i momenti della vita, a cui si può opporre solo la memoria: memoria contro dimenticanza, che è invece uno degli strumenti del Grande Fratello.

Dopo quella di Orwell, la più celebre distopia è quella di Aldous Huxley. Anche lui inglese, appartenente a una famiglia importante dell’Inghilterra del tempo, che annoverava personaggi di rilievo nel mondo accademico e scientifico. Negli anni ’30, quando l’Europa e il mondo avevano visto l’affermarsi della rivoluzione comunista in Russia e poi la crescita delle dittature fasciste e nazista, diede alle stampe un romanzo – Il mondo nuovo – che è uno dei più significativi esempi di romanzo utopistico, di fanta-politica.

Huxley immagina, nel suo romanzo, un mondo dominato da un totalitarismo soft, anche qui caratterizzato da un pensiero unico, così come un governo unico mondiale, che controlla strettamente ogni individuo. Questo è sicuramente un aspetto che emerge dalla letteratura inglese di anticipazione: è sempre la libertà dell’individuo a essere rivendicata, a fronte dei vari tentativi di schiacciarla, di realizzare modelli-mostri, sia individuali che sociali. La terribile mostruosità del mondo nuovo di Huxley sta nel fatto che tutto è programmato: vengono programmate anche le nascite, si vuole estirpare il dolore, la sofferenza del vivere.

Il dolore, inteso anche come inquietudine, è un nemico sociale che deve essere combattuto, per cui la società, che esercita un controllo capillare sui singoli, li tiene anestetizzati in vari modi attraverso ogni tipo di divertimento, non ultimo l’uso delle droghe, diffuse, propagandate e promosse attivamente…

Rileggere oggi l’opera di Huxley è impressionante. Come in 1984, anche qui viene manipolata la lingua. Nella società fordista, ci sono due parole che sono assolutamente tabù: “padre” e “madre”. Pare quasi che Huxley avesse previsto l’evoluzione dell’idea di genitorialità, che oggi vorrebbe sostituire questi termini pieni di specificità, di intimità, con gli asettici e disumani “genitore 1, 2” e così via.

Nel Nuovo Mondo la famiglia è stata disgregata e distrutta, con la conseguenza che, come gli “schiavi della felicità” che lo popolano, anch’esso è destinato a rimanere per sempre a uno stadio di infantilismo e a consumare l’eternità in una bolla di tempo presente sempre uguale a se stesso. Una giustapposizione infinita di momenti identici che si ripetono in continuazione.

Questo è dunque secondo Fumagalli l’insegnamento della letteratura distopica: ritrovare tra le pieghe di un tempo crudele una bellezza che non può scomparire. Dopo la notte, non può che venire l’alba.

Paolo Gulisano

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