Non è certo che i vaccini interrompano la trasmissione del virus

Gli studi sull’effetto dei vaccini sulla popolazione non sono completi. Vengono omessi dei dati fondamentali sulla riduzione assoluta del rischio. Per ora non c’è evidenza scientifica che questi vaccini interrompano la catena di trasmissione. Quindi perché continuare la campagna di comunicazione per far vaccinare anche le categorie a basso rischio?

Quanto sono efficaci i vaccini che milioni di persone hanno o stanno ricevendo? Perché si sente più spesso ripetere che sarà necessaria una terza dose, se non addirittura una dose ogni anno a tempo (sembra) indeterminato?

Comprendere appieno l’efficacia dei vaccini è meno semplice e scontato di quanto possa sembrare. Un aiuto a questa comprensione può venire dagli studi. Al momento abbiamo i risultati intermedi di quattro studi pubblicati su riviste scientifiche riguardanti i vaccini Pfizer–BioNTech, Moderna, AstraZeneca e il vaccino russo Gamaleya più noto come Sputnik V, e tre studi attraverso i documenti informativi della Food and Drug Administration (FDA) statunitense su Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson. La rivista medica britannica Lancet ha recentemente pubblicato un articolo in cui viene analizzata l’efficacia dei vaccini attualmente utilizzati. COVID-19 vaccine efficacy and effectiveness è il titolo dello studio, con un sottotitolo curioso: The elephant (not) in the room. “L’elefante (non) nella stanza”. Un modo di dire che indica una realtà molto evidente – come un’elefante in una stanza- che tuttavia non si vuole vedere. Efficacy and effectiveness: apparentemente due sinonimi, ma in realtà per efficacy si intende una efficacia teorica, mentre effectiveness significa efficacia reale, nelle condizioni effettive. Rispetto ai vaccini, cosa significa? L’efficacia del vaccino è generalmente riportata come riduzione del rischio relativo (RRR). Utilizza il rischio relativo (RR), ovvero il rapporto tra i tassi di attacco con e senza vaccino, espresso come 1-RR. La classificazione in base all’efficacia riportata nella letteratura esaminata dall’articolo del Lancet, fornisce riduzioni del rischio relativo del 95% per i vaccini Pfizer, 94% per Moderna-NIH, 90% per Gamaleya, 67% per J&J e 67% per il vaccino AstraZeneca.

Tuttavia, sottolineano gli autori dell’analisi, la RRR dovrebbe essere vista nel contesto del rischio di essere infettati e ammalarsi di COVID-19, che varia tra le popolazioni e nel corso del tempo. Gli studi presentati dalle aziende, e che hanno permesso che fosse data l’autorizzazione d’emergenza da parte degli organi preposti, FDA americana ed EMA europea,  hanno preso in considerazione la RRR relativa ai soli partecipanti allo studio, che potrebbero beneficiare del vaccino, mentre la riduzione assoluta del rischio (ARR), che è la differenza tra i tassi di attacco con e senza vaccino, considera l’intera popolazione. Gli ARR tendono ad essere ignorati perché danno una dimensione dell’effetto molto meno impressionante degli RRR: 1,3% per AstraZeneca–Oxford, 1,2% per Moderna, 1,2% per J&J, 0,93% per lo Sputnik e 0,84% per Pfizer.

Ci sono molte lezioni da imparare dal modo in cui vengono condotti gli studi e vengono presentati i risultati. Con l’uso dei soli RRR e l’omissione degli ARR, viene introdotto il reporting bias, che influisce sull’interpretazione dell’efficacia del vaccino. Quando si comunica l’efficacia del vaccino, in particolare per le decisioni di salute pubblica come la scelta del tipo di vaccini da acquistare e distribuire, è importante avere un quadro completo di ciò che i dati mostrano effettivamente e garantire che i confronti si basino sulle prove combinate che mettono i risultati della sperimentazione sui vaccini nel contesto e non solo guardando una misura sommaria. Tali decisioni dovrebbero prevedere una comprensione dettagliata dei risultati dello studio, che richiedono l’accesso a set di dati completi e un esame e analisi indipendenti.

Sfortunatamente, confrontare i vaccini sulla base dei dati degli studi (intermedi) attualmente disponibili è reso ancora più difficile da protocolli di studio disparati, inclusi endpoint primari (come quello che è considerato un caso COVID-19 e quando viene valutato), tipi di placebo, popolazioni di studio, rischi di fondo di COVID-19 durante lo studio, durata dell’esposizione e diverse definizioni di popolazioni per le analisi sia all’interno che tra gli studi, nonché definizioni di endpoint e metodi statistici per l’efficacia. È importante sottolineare che ci rimane la domanda senza risposta se un vaccino con una data efficacia nella popolazione in studio avrà la stessa efficacia in un’altra popolazione con diversi livelli di rischio di fondo di COVID-19. Questa non è una domanda banale perché l’intensità di trasmissione varia da Paese a Paese, influenzata da fattori come interventi di sanità pubblica e varianti del virus.

Gli studi di fase 3 non coordinati non soddisfano i requisiti di salute pubblica; sono studi che misurano la prevenzione dell’infezione da COVID-19 da lieve a moderata: non sono stati progettati per trarre conclusioni sulla prevenzione dell’ospedalizzazione, di casi gravi o dei decessi, o sulla prevenzione dell’infezione e del potenziale di trasmissione, la cosiddetta Immunità sterilizzante. In parole semplici: non c’è evidenza scientifica che questi vaccini interrompano la catena di trasmissione. E se dunque il vaccino è una forma di protezione individuale, perché continuare la campagna anche nei confronti di categorie a basso e bassissimo rischio? Se il motivo è che “i nipoti possono infettare i nonni” (che magari sono già vaccinati), evidentemente non regge.

Paolo Gulisano

https://lanuovabq.it/it/non-e-certo-che-i-vaccini-interrompano-la-trasmissione-del-virus

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