Rileggere “il Mondo Nuovo” per capire dove viviamo

Il Mondo Nuovo è sicuramente, dopo 1984 di Orwell, il più celebre romanzo distopico. Il suo autore, Aldous Huxley, apparteneva ad una famiglia importante dell’Inghilterra di inizio ‘900, che annoverava personaggi di rilievo nel mondo accademico e scientifico. Nel 1932, quando l’Europa e il mondo avevano visto l’affermarsi della rivoluzione comunista in Russia e si accingevano ad assistere alla crescita delle dittature in occidente, diede alle stampe un romanzo in cui immagina un mondo dominato da un totalitarismo soft, caratterizzato da un pensiero unico, così come un governo unico mondiale, che controlla strettamente ogni individuo.

La terribile mostruosità del mondo nuovo di Huxley sta nel fatto che tutto è programmato: vengono programmate anche le nascite, si vuole estirpare il dolore, la sofferenza del vivere, diffondendo in ogni modo l’uso di droghe.

Il dolore, inteso anche come inquietudine, è un nemico sociale che deve essere combattuto, per cui la società, che esercita un controllo capillare sui singoli, li tiene anestetizzati in vari modi attraverso ogni tipo di divertimento, non ultimo l’uso delle droghe, diffuse, propagandate e promosse attivamente…

Huxley non aveva una visione religiosa, era uno scettico, ma comunque è interessante l’alternativa che oppone a questo mondo “nuovo” che va a nascere. Egli pone come elemento di contestazione a questa società un eroe, un selvaggio – John – cresciuto in una riserva pellerossa, nutrito però di letture ormai messe al bando dalla cultura dominante, primo fra tutti Shakespeare.

Chissà perché il nuovo ordine mondiale aveva una particolare idiosincrasia per il bardo di Stratford. Forse perché ne aveva avvertito l’assoluta opposizione all’asservimento della coscienza. Forse ne aveva avvertita la profonda, intensa religiosità. La fede clandestina di Shakespeare poteva diventare la fede di un “irregolare” come John, un outsider, come viene definito. Uno che sta fuori dalle schiere ordinatissime predisposte dal potere.

John, forte di natura e cultura allo stesso tempo, è colui che mette in discussione e affronta da solo il sistema che si è venuto a creare, in un impeto eroico e, alla fine, perdente, anche se capace di dare una testimonianza fortissima e commovente di fronte al mondo.

Anche in questo romanzo c’è l’intuizione geniale di un autore che, in quegli anni Trenta in cui l’Europa era dominata da dittature fortissime e violentissime, immagina, al contrario, che il mondo futuro non sarà segnato da questo genere di totalitarismi, bensì da un totalitarismo soft, morbido, ma non meno pericoloso e devastante per le coscienze e addirittura per l’umanità dei singoli.

Il Mondo Nuovo, in originale Brave New World, è un romanzo che sfugge a ogni tentativo di trovargli una facile – e forse rassicurante – collocazione e definizione. La sua anima contraddittoria e polimorfica è racchiusa già nel titolo che, com’è noto, riprende alla lettera un verso della Tempesta di Shakespeare, la famosa esclamazione del personaggio di Miranda davanti alle meraviglie dell’Isola: “O brave new world!”.

Naturalmente, nel contesto del romanzo di Huxley questa entusiastica dichiarazione si tinge progressivamente di ironia tragica. L’esclamazione della ragazza, fatta propria dal Selvaggio huxleyano, esprime lo stupore di fronte alla scoperta di un mondo che pare offrire possibilità sconfinate e allettanti e nel quale si profila l’opportunità di una riconciliazione col passato, di una reintegrazione armoniosa dell’individuo nel corpo sociale d’origine che chiuda la fase di “deviazione”.

Se, tuttavia, nella tragicommedia shakespeariana questa conclusione positiva è possibile, non vale lo stesso per il romanzo di Huxley, schiacciato in una morsa di irriducibili dicotomie. In una sorta di slogan orwelliano ante litteram, i due aggettivi che qualificano il Mondo del futuro descritto nell’opera significano contemporaneamente se stessi e il proprio contrario, cosicché è il titolo stesso a sprigionare l’insieme esplosivo di tensioni conflittuali e irrisolte che sottende tutta l’opera. “Nuovo”: fin dalle prime righe del romanzo, il lettore si ritrova catapultato – come John il Selvaggio qualche capitolo più avanti – in una realtà aliena e alienante, in cui la maggior parte degli esseri umani viene al mondo in provetta, ed Henry Ford – il grande industriale dell’automobile – è stato eletto a divinità e nume tutelare di questa società ossessionata dall’avanzamento tecnologico, che ha fatto tabula rasa del passato e ha rimpiazzato i dieci comandamenti con l’unico precetto dell’“usa-e-getta”.

Come per tutte le scappatoie, però, c’è un prezzo da pagare per l’apparente spensieratezza del Mondo Nuovo: la libertà. Insieme alla fede e anche ai dubbi infatti è stata eliminata anche la possibilità di scegliere come prendere in mano le redini della propria esistenza, e di definire la propria identità in questo processo. Il requisito d’accesso al paradiso terrestre del Mondo Nuovo è che gli uomini diventino come macchine.

Il Direttore delle Incubatrici dove nascono, programmati, i nuovi bambini, afferma, parlando della rigida struttura sociale del Mondo Nuovo, che a ciascuno di questi bambini verrà assegnato un posto stabile e definitivo nel mondo. È una sorta di sicurezza, dove non c’è più posto per la libertà, per la scelta. Il Dio dei cristiani, di cui il Mondo Nuovo si è liberato, per lo meno aveva fatto dono all’uomo del libero arbitrio, della possibilità di scegliere.

Quella descritta da Huxley è l’utopica tirannia del welfare. L’utopia materiale del benessere che maschera un’antiutopia dell’anima. Uno dei messaggi cosiddetti “ipnopedici”– messaggi che devono arrivare nella sfera più profonda della coscienza – inculcati dal Governo unico mondiale nella mente dei suoi abitanti recita: “Il Progresso è piacevole”. Il Mondo Nuovo nasce in primo luogo dall’odio per il passato, per l’eredità delle generazioni precedenti. Oggi, nel tragico 2020, possiamo chiederci se il romanzo di Huxley fosse mera narrativa, o non piuttosto un programma preciso destinato a realizzarsi entro un secolo.

Paolo Gulisano

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