Se elimina il sofferente anziché la sofferenza non è medicina

Una medicina che non si propone di eliminare la sofferenza, ma il sofferente, non è più l’arte del curare che è stata per 2000 anni. È la logica perversa che sta dietro anche ad altre forme di eutanasia, dell’abbandono terapeutico, della rinuncia alla cura. Una medicina asservita a normative che non riconoscono alcun valore alla vita umana sofferente.

Nel 2020 Shanti Della Corte tentò il suicidio, ma si salvò. Sono trascorsi due anni, e la ragazza ha trovato una via legale, attraverso una richiesta formale al sistema sanitario, perché alla sua vita fosse messa fine attraverso una azione, implacabilmente sicura, attraverso l’eutanasia volontaria, che in Belgio è stata introdotta legalmente da diversi anni.

La legislazione in Belgio, una delle più liberali al mondo, dal 2002 consente infatti di accedere al cosiddetto fine vita anche in presenza di una «sofferenza psicologica costante, insopportabile e incurabile». Queste sono le condizioni da ottemperare per ottenere la morte per mano di un medico, in una struttura pubblica. Su alcuni giornali si è letto che la ragazza si può considerare come l’ultima vittima degli attentati di allora. Non è così: non è stata la barbarie dell’Isis a ucciderla, ma una barbarie più subdola, più infida, un veleno che ha contaminato il pensiero dell’Europa e dell’Occidente: l’idea che la sofferenza non ha senso, che è un fastidio di cui liberarsi rinunciando alla propria vita, facendo sì che possa essere soppressa.

Shanti è stata vittima di una legge che – come molte altre leggi in materia sanitaria approvate nel corso degli anni – contravviene la deontologia medica così come è stata espressa fin dal Giuramento di Ippocrate, che vieta espressamente di dare la morte “anche se richiesta”.  Dire che la ragazza è l’ultima vittima dell’Isis è un tentativo falso di lavarsi la coscienza. 

Shanti era indubbiamente una ragazza ferita, anche se nell’attentato era rimasta fisicamente illesa, nonostante le bombe fossero esplose a pochi metri da lei. Quasi un miracolo. Ma l’adolescente belga non era riuscita a trasformare questo evento in gratitudine per essersi salvata, non era riuscita a trovare un senso in quell’orrore che aveva visto.  Un trauma dal quale non era riuscita a uscire. 

E così la scappatoia le è stata offerta da questa legislazione che equipara il dolore psicologico, e la depressione, a malattie terminali. A malattie che non possono essere curate. Certo, Shanti si era rivolta nel corso di questi sei anni a vari specialisti, era più volte andata in ospedale. Come raccontava lei stessa sui social soffriva di continui attacchi di panico e depressione: “Mi sveglio e prendo medicine a colazione, poi fino a 11 antidepressivi al giorno. Senza non posso vivere, ma con tutte queste pastiglie non provo più niente, sono un fantasma”.

E così, su sua richiesta, è giunto il giorno dell’iniezione letale. Accanto alla giovane, nel momento della fine, c’erano i suoi familiari, quasi ad “accompagnarla”.

Un neurologo dell’ospedale universitario Brugmann, Paul Deltenre, ha dichiarato all’emittente pubblica Rtbf che l’eutanasia non avrebbe dovuto essere autorizzata, perché alla ragazza erano state offerte altre opzioni terapeutiche per trattare le ferite da stress post traumatico. La procura di Anversa ha aperto un’inchiesta ma poi ha concluso che la procedura è stata rispettata. Le procedure, i protocolli, anche se di morte, una volta che siano formalmente seguiti, garantiscono l’impunità, poco importa che una persona, una ragazza di 23 anni, che aveva davanti a sé prospettive e possibilità di ripresa, di guarigione, di cambiamento, sia stata uccisa.

Una medicina che non si propone di eliminare la sofferenza, ma il sofferente, non è più l’arte del curare che è stata per 2000 anni. È inaccettabile questa resa di fronte al disagio psichico, al “male di vivere”, come se non ci fosse cura, come se non ci fosse sempre e comunque la speranza. E’ la logica perversa che sta dietro anche ad altre forme di eutanasia dell’abbandono terapeutico, della rinuncia alla cura. Una medicina asservita a normative che non riconoscono alcun valore alla vita umana sofferente.

Paolo Gulisano

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