Tolkien e la difesa del Creato

Proviamo per un momento a visualizzare alcune immagini, come delle cartoline: in una vediamo una vallata alpina, verdissima, punteggiata di alti alberi, con sentieri che si inerpicano verso le cime della montagna. La seconda immagine è ancora di un panorama montano, ma invernale, con candida neve e lucenti ghiacciai. La terza è di una spiaggia al tramonto, con le onde che si frangono sugli scogli, e delfini che nuotano in lontananza. La quarta è di un villaggio di campagna, con casette di pietra e legno, con piccole botteghe che si affacciano sulla via.

Cambiamo ora decisamente scenari: passiamo velocemente in rassegna foto di grandi periferie, con traffico di auto, strade sporche. Vediamo poi le immagini di un enorme centro commerciale, falsamente luccicante. Vediamo poi gli interni di una grande fabbrica, con le sue catene di montaggio.

Dove preferireste trovarvi a vivere? Non ci sono dubbi sulla possibile risposta. L’uomo è fatto per il bello, per il buono. Questa sensibilità per il bello e per il buono è stata particolarmente coltivata nel cristianesimo. Molto prima di qualunque ideologia, in particolare quelle di tipo ecologista, il cristianesimo ha indicato nel Creato un riflesso del volto del Creatore. Se dunque bisogna guardarsi dalle ideologie neopagane che idolatrano la natura, allo stesso modo bisogna guardarsi da quel disprezzo egoistico del Creato che per soddisfare un’altra idolatria, quella del denaro e del potere, ha portato a deturpare e corrompere l’ambiente in cui viviamo.

Questa giusta ed equilibrata visione del rapporto tra l’umanità e il Creato è stata mirabilmente delineata da John Ronald Tolkien. L’autore del Signore degli Anelli fu un uomo dalla profonda sensibilità nei confronti della natura, e ciò fin dall’infanzia. Il piccolo Ronald appariva molto attratto dallo studio della botanica, che la madre incoraggiò con la consueta attenzione che aveva per le inclinazioni del bambino, e mostrava chiaramente i segni di un altro grande amore, oltre a quello per i draghi: gli alberi. Li studiava, li disegnava con cura, ma soprattutto amava stare in loro compagnia: stava a lungo seduto appoggiato ai loro tronchi, vi si arrampicava sopra, parlava con loro.

Fu molto stupito quando si accorse che la maggior parte delle persone non condivideva questo amore, e ben presto dovette anzi assistere con crescente dispiacere alla distruzione dei boschi del suo piccolo mondo incantato: quel che restava dell’Inghilterra rurale lasciava inesorabilmente il posto ad una nuova fase della rivoluzione industriale, e i tentacoli di cemento della periferia di Birmingham si estesero fino a Sarehole Mill, il villaggio ai margini della metropoli dove Tolkien abitava.

Per tutta la vita, John Ronald ebbe a conservare questo amore per gli alberi, e a ricordare nelle sue opere il valore di un necessario equilibrio tra l’uomo e la natura. Gli alberi e le foreste sono spesso tra i protagonisti delle storie della Terra di Mezzo: la Contea, in primo luogo, la patria degli hobbit, un fertile territorio sito nel Nord-Ovest, che fino alla grande Guerra dell’Anello era vissuta tranquillamente e pigramente appartata dalle vicende della Terra di Mezzo, con la sua struttura sociale di tipo rurale pacificamente e ordinatamente amministrata.

All’estremità orientale della Contea, inoltre, si estendeva quel che restava dell’antica foresta che un tempo ricopriva quella regione. Strani alberi vi si incontravano, come il Vecchio Uomo Salice. Qui viveva ed esercitava la sua signoria sulla Vecchia Foresta il più misterioso protagonista della Terra di Mezzo: Tom Bombadil, un personaggio apparentemente marginale nella grande saga, ma dal grandissimo significato simbolico. Il suo potere, la sua conoscenza e la sua gioia destano stupore e ammirazione profondi, e un interrogativo irrisolto sulla sua origine e sul suo ruolo. Tom ha di fronte alla realtà e alle cose una libertà inimmaginabile, che ricorda quella di un San Francesco d’Assisi. Su di lui il potere malefico dell’Anello del Potere, che corrompe anche i più nobili e i più sapienti, non ha nessun effetto, anzi: lui se ne ride tranquillamente.

C’è poi Bosco Atro: la vasta foresta sita ad est del fiume Anduin, conosciuta un tempo come Il Grande Bosco Verde. Con il crescere del potere di Sauron, l’Oscuro Signore, venne infestata da orchi e grandi ragni neri. Nonostante ciò vi rimasero anche gli elfi, a ricordare come fosse stata un tempo. Il bosco è speso in Tolkien una sorta di oasi dalle ostilità di un mondo corrotto.

È il caso, ad esempio di Rivendell, chiamata “l’ultima dimora accogliente”; rifugio nascosto degli elfi in una scoscesa valle di Lorien, sopravvissuta a tutti i conflitti tra elfi e Sauron, in tempi di pace costituiva un luogo di studio e di meditazione. Lorien, ovvero “la terra del sogno”, era uno dei luoghi più incantevoli della Terra di Mezzo: reame elfico occultato nei boschi siti ad ovest del fiume Anduin, fondato dalla regina Galadriel e da lei governato con grande saggezza fino al giorno della inevitabile partenza per le Terre Imperiture fu abbandonato. Qui Frodo e i suoi amici avevano attinto alla fonte della sapienza elfica.

Infine vi era Fangorn, residuo di un’antica immensa foresta che un tempo ricopriva gran parte di Eriador. Qui vivevano gli Ent, antiche creature, mezzi uomini e mezzi alberi, guardiani della foresta, profondamente buoni nonostante il loro temibile e gigantesco aspetto – superavano in altezza i quattro metri – e custodi di una saggezza antica quanto la terra. Nella Guerra dell’Anello furono alleati importanti e decisivi contro le forze maligne di Mordor, a ricordare quanto sia importante l’alleanza che l’uomo deve stringere con la natura, se vuole sopravvivere a quelle forze negative che egli stesso è in grado di scatenare.

L’amore di Tolkien per gli alberi, che entra con tale rilevanza nelle sue storie, non rappresenta una sorta di nostalgismo arcadico per un mondo rurale idealizzato, ma esprime un desiderio di bello, di bene, di uso del buon senso al fine di impiegare meglio le risorse che il Creatore ci offre attraverso il creato.

Per Tolkien nella modernità c’è una desolante perdita del senso del bene e del male, nonché della bellezza e della bruttezza. “È veramente, la nostra, un’era di mezzi migliori per scopi peggiori” – scrisse nel 1938 nel saggio On Fairy Stories – “e fa parte dell’essenziale morbosità di un’epoca siffatta – la quale provoca il desiderio di evadere, non proprio dalla vita, sì però dal nostro tempo presente e dalla infelicità di cui siamo noi stessi gli autori – il fatto che siamo acutamente consci sia della bruttezza sia dell’iniquità delle nostre opere. Sicché, ai nostri occhi male e bruttezza sembrano indissolubilmente connessi”.

Si tratta di una delle più lucide diagnosi sulla modernità mai scritte. In essa vi è il lapidario giudizio di Tolkien sulla tecnologia: non una demonizzazione, ma l’evidenza che è fondamentale oltre la tecnica anche l’etica. Un mezzo può non essere cattivo in sé, ma dipende dall’uso che se ne fa. Un aereo è un formidabile mezzo di locomozione, ma può essere anche un terribile strumento di morte se sgancia delle bombe. Questa avversione di Tolkien per le brutture e gli errori della modernità non è ideologica poiché è realistica, non nasce, cioè, da un idea di mondo, o da un progetto più o meno utopico su di esso, ma dalla constatazione della natura e della condizione umana, segnata indelebilmente dalla Caduta (in termini cristiani dal Peccato Originale), talché il Nemico da battere è sì l’avversario malvagio (Sauron o Saruman) ma è soprattutto il male che si annida infido in ciascuno di noi.

Mentre le utopie rivoluzionarie teorizzavano l’abbattimento dei tiranni e la liberazione degli individui dalle catene dell’ignoranza e della superstizione, la realtà fu che gli uomini vennero ridotti ad anonimi fattori di produzione, destinati a essere materiale umano a basso prezzo sul mercato del lavoro, buono per essere sfruttato senza scrupoli nel quadro della rivoluzione industriale, la quale doveva sostenere i sogni scientisti e prometeici di inebrianti avventure tecnologiche, col risultato di sradicare milioni di persone dalla loro terra, dai loro usi e costumi e dalle loro tradizioni, specialmente religiose, stipandoli in condizioni subumane in degradanti periferie.

Questo disegno valse in particolar modo per i sudditi britannici, chiamati a dare sudore e sangue per lo splendore dell’Impero. Nel saggio On Fairy Stories Tolkien ci illustra quale fosse la sua posizione nei confronti dei laudatores del nuovo ordine: “Non molto tempo fa, per incredibile che sembri, mi è capitato di udire un docente di Oxford dichiarare che ‘accettava di buon grado’ la vicinanza di fabbriche robotizzate per la produzione in serie e il rombo del traffico meccanico autoingorgantesi, perché ciò metteva la sua università ‘a contatto con la vita vera’. Forse voleva dire che il modo secondo cui gli uomini vivono e lavorano nel secolo XX diviene sempre più barbarico, e con allarmante velocità, e che la dimostrazione fragorosa che se ne aveva per le strade di Oxford avrebbe potuto servire da monito circa l’impossibilità di preservare a lungo un’oasi di equilibrio mentale in un deserto di irragionevolezza servendosi di semplici steccati, senza una concreta azione offensiva, pratica e intellettuale. Temo, però, che non fosse questo il suo proposito. E comunque, l’espressione ‘vita reale’ in tale contesto non sembra rispondere ai canoni accademici. L’idea che le automobili siano più ‘vive’, diciamo dei centauri o dei draghi, è ben curiosa; e che siano più ‘reali’ ad esempio dei cavalli, è pateticamente assurdo. Ah, quanto reale, quanto sorprendentemente viva è infatti la ciminiera di una fabbrica, se paragonata a un olmo, questa povera cosa obsoleta, inconsistente sogno di un escapista!”.

Proseguendo, Tolkien citava a suo supporto Christopher Dawson, uno dei più illustri storici britannici della cultura e della religione, nonché tra i più significativi esponenti della rinascita cattolica in Inghilterra, il quale, nel suo Progress and Religion scriveva: “la brutalità e la bruttezza della vita europea d’oggi è il segno di un’inferiorità biologica, di una reazione insufficiente o errata all’ambiente”. La modernità come malattia, dunque, e Tolkien commentava, alla sua maniera: “Il più pazzo castello che mai sia uscito dalla sacca di un gigante in uno sfrenato racconto gaelico, non soltanto è assai meno brutto di una fabbrica-robot, ma è anche ben più reale di essa…”.

Le grandi trasformazioni della società industriale agli inizi del Novecento furono dunque affrontate da Tolkien attraverso il suo talento artistico, attraverso la sua passione per il mito, attraverso la sua geniale creatività, arrivando così alle sue opere, che rappresentano una proposta di ritornare alla fantasia come rimedio salutare per l’animo umano.

Paolo Gulisano

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