Un Campari con… Samuele Pinna e… don Augusto

Samuele Pinna è un nome ben noto ai lettori di Campari & de Maistre. Ed è proprio su questa testata che sono state pubblicate decine di puntate dei sui gustosi racconti che avevano come protagonista un sacerdote, don Augusto. Questi racconti sono stati la matrice da cui è nato l’ultimo libro – il decimo – del sacerdote milanese. Il volume, “Dalle lettere di don Augusto”, editrice Ares, è uscito da pochi giorni. Era cosa buona e giusta, doverosa e salutare incontrare l’Autore, e noi lo abbiamo fatto.

  • Caro don Samuele, noi suoi lettori ci aspettavamo e speravamo che il personaggio di don Augusto nato qui su C&D potesse diventare il protagonista di un libro. Non siamo stati delusi, ma il libro che ne è nato è un po’ diverso da come ce lo avevamo immaginato.

Sì, i racconti apparsi su Campari & de Maistre erano di forte ispirazione guareschiana, dove il mio don Augusto, pur calato in un contesto totalmente differente, agiva in modo molto simile al don Camillo di Guareschi. Quando ho deciso di pubblicare quelle storie, grazie anche al mio Editor (tra l’altro mia parrocchiana!) ho voluto dare più profondità al personaggio e togliere ogni riferimento al prete della Bassa. Questo perché si è voluto delineare una figura originale. Tra i primi lettori, quando i racconti erano ancora in fieri, c’è stato Alberto Guareschi, il quale ha apprezzato le novelle perché non scimmiottavano quelle di suo padre, ma volevano tratteggiare una figura nuova. Il libro, così com’è stato editato, è il risultato finale di un lungo percorso: don Augusto ora è finalmente se stesso!

  • Reverendo (mi permetta di chiamarla così, con questo termine un po’ desueto, e dandole pure del lei), ci ha molto colpito il sottotitolo del libro: “Come rimanere cattolici nonostante tutto”… E già: sembra che oggi restare cattolici sia diventato molto difficile…

Grazie per il “lei”, del resto io faccio dare da don Augusto del “Voi” a Gesù «perché non sono per niente persuaso che le formalità siano del tutto sbagliate». Se devo trovare il motivo per cui oggi è difficile essere cattolici posso sintetizzarlo con due parole: “fede” e “verità”. Credo, come ha detto Benedetto XVI (e, in qualche modo, continua a ripetere), che oggi non si sia persa la fede nel senso soggettivo (la fede personale di ciascuno), ma si sia persa la fede in un senso oggettivo (la fede cattolica per quello che è). E, qui, entra in scena la seconda parola: “verità”. Se manca la verità, che è e deve essere riferimento per tutti, ogni cosa cade nell’opinabile: Gesù è davvero risorto? I Sacramenti sono davvero sette? Non si può rispondere: “Per me sì” o “Per me no”, ma “Se sono cattolico credo che…”. La situazione in cui oggi ci troviamo è invece di chi dice A e di chi afferma esattamente l’opposto e nessuno ha il coraggio di attestare cosa è sbagliato in modo oggettivo. Questo può andare bene per il “mondo” (anche se ne vediamo i risultati), ma non per la Chiesa, perché c’è solo una parola, che non è quella di un libro (san Bernardo di Chiaravalle spiegava che il cristianesimo non è la religione del libro, ma del Vivente), ma di un Dio che parla attraverso le Sacre Scritture e la Tradizione della Chiesa. Con Tradizione (ma anche Magistero e dottrina) non s’intende le sparate di un parroco, di un sedicente teologo o di un vescovo, ma le verità che identificano l’essere cristiani. In altri termini, bisogna tornare a fare proprie le parole che pronunciamo nel Credo. “Fare proprie” vuol dire: non avere solo le idee chiare, ma applicare quelle idee (la verità) nella vita (con la carità).

  • Reverendo, è d’obbligo una domanda, anche alla luce dei suoi interessi culturali e teologici: quanto c’è di don Camillo nel suo Augusto?

Pur allontanandomi volutamente dal fare il verso al Don Camillo di Guareschi, che sarebbe stato in ogni caso operazione ridicola, c’è tanto del suo pretone nel mio don Augusto. Don Camillo è un sacerdote “solido”, con poche idee ma belle chiare, ama appassionatamente il suo gregge e segue sempre i consigli o i rimbrotti del Crocifisso. Anche il mio personaggio ama in modo appassionato il popolo di Dio a lui affidato e, in fondo, non ce l’ha con nessuno, perché ciò che non sopporta non è una persona particolare, ma la stupidità umana, soprattutto quando si spaccia per intelligenza.

  • Il “Mondo piccolo” di don Augusto non è ben localizzato geograficamente, ma non è difficile immaginare che la grande città in cui il suo confratello è stato chiamato sia Milano, e il povero don Augusto è il testimone di una certa deriva iperprogressista che si è ben radicata anche nel terreno buono della tradizione ambrosiana e borromaica.

Come Guareschi, anch’io nei mie racconti sono stato sfumato nel precisare un luogo e un periodo storico. Nel libro, invece, risulta chiaro che i tempi di cui parlo sono i nostri, mentre rimane più vaga l’indicazione del posto da cui partono le lettere del Nostro. E il lettore è libero di indentificarsi come meglio crede. Lo stesso Guareschi nel primo racconto scrive che don Camillo è l’arciprete di Ponteratto, ma poi preferisce non dare più indicazioni precise. Penso sia stato uno degli elementi del suo successo interplanetario: quelle vicende di un parroco di provincia potevano raggiungere tutti. Io non posso minimamente paragonarmi al genio di Guareschi, ma ho cavalcato l’intuizione: il mio don Augusto potrebbe agire a Milano come a Bosa in Sardegna o a Napoli e, perché no, in Baviera. Nel mio immaginario, le situazioni possono rappresentarsi anche in longitudini e latitudini diverse. Riguardo alla terra ambrosiana posso dire che è ancora ricca e feconda, benché siano presenti, come dappertutto derive di segno opposto. Capirà che non posso sbilanciarmi perché non ho nessuna intenzione di finire in esilio come il povero don Augusto, il quale è molto più coraggioso di me. Tornando seri, anche se «la serietà non è la virtù», come diceva Chesterton ed è ricordato nella Presentazione del mio libro, oltre a essere il motto di questo blog, il problema è la confusione regnante a tutti i livelli: sia il progressismo sia un becero conservatorismo sono dannosi. Sono due estremi nocivi: da una parte si vuole mantenere la carità a scapito della verità, mentre dall’altra si sacrifica la carità per la verità. La via giusta è, a mio parere, quella più difficile, in cui si necessita di grande equilibrio, di chi cioè non confida nelle sue capacità di giudizio, ma si affida a Dio con umiltà. Ogni domanda che abbiamo nel cuore ha una risposta, ma ci vuole grande impegno e fatica nel ricercarla e trovarla (ma c’è!). è il cammino della “conversione” e di fare sempre più nostro, come dice san Paolo, «il pensiero di Cristo» (e non il “secondo me”). è Lui che cambia l’esistenza e non le nostre strategie, che possono essere utili ma in fin dei conti secondarie e relative. Qui si ritrova la speranza, perché, come mi ha insegnato il mio amico Giorgio Torelli, araldi del Vangelo, della verità, apostoli, martiri, evangelisti e, in una parola, testimoni della fede ci sono, esistono! è certo, però, che bisogna andarseli a cercare muniti di pazienza. Nel mio piccolo, ho avuto la grazia di vivere incontri del genere che ti permettono di proseguire con nuovo slancio il cammino; e come non ricordare quello più significativo per me con Benedetto XVI oppure l’amicizia con Giacomo Biffi o ancora quella con il cardinal Georges Cottier oppure l’incontro con Robert Sarah o, da piccolo, con don Vittorione. Insigne personalità che hanno arricchito notevolmente la mia vita di fede e sacerdotale. Il problema, allora, non è schierarsi, perché la fede non è fare il tifo per una squadra piuttosto che l’altra, ma ricordarsi che abbiamo già vinto, perché il Signore ha sconfitto il mondo, il peccato e, addirittura, la morte… dobbiamo chiederci se io sto gareggiando con Lui o contro di Lui. Dobbiamo, inoltre, convincerci che è Lui, mediante la Chiesa, che ci traccia la via per il Paradiso. E qui ritorna il tema della fede e della verità.

  • Insistiamo con Milano, reverendo. Un grande dono fatto dalla Chiesa Ambrosiana al resto del popolo di Dio fu proprio il cardinale Biffi, di cui lei si è occupato approfonditamente. Don Augusto sembra avere molte caratteristiche biffiane. È stato per caso alla sua scuola?

Credo che il cardinal Biffi sia stato uno degli uomini più lucidi del nostro tempo, con uno stile di scrittura e di analisi che non si trova facilmente in giro e che supera di molto i nostri contemporanei. La sua capacità era quella di sapere fare una diagnosi molto efficace e altrettanto sintetica della realtà, scovando le stupidaggini e tenendo aperto uno sguardo di speranza. In sua compagnia non ci si intristiva o annoiava, perché trasmetteva una gioia profonda, una gioia cristiana. Don Augusto, probabilmente di qualche anno più giovane, ma non molti, ha saputo beneficiare nell’insegnamento del Cardinale. Del resto, tra le righe, fuoriesce il pensiero di Biffi, a dire che sicuramente l’ha apprezzato. Di là dal mio personaggio, gli devo molto e ho cercato di ricambiare questo debito attraverso pubblicazioni che mantenessero vivo il suo pensiero.


  • Nella 
    Presentazione al suo libro, leggiamo della virtù del buon umore. Ma come fa don Augusto a conservare la serenità e perfino la gioia in un mondo (e in una Chiesa) che ha subito – come avrebbe detto Chesterton – un tracollo mentale?

La mia tesi è questa: è l’umorismo che salverà il mondo, perché capace mediante un sorriso di far mettere in moto il cervello senza che uno si prenda troppo sul serio così da non cedere alla retorica. Questo non significa, però, che non ci sia preoccupazione e anche scoraggiamento davanti a una realtà che è sempre più difficile da comprendere per chi è cattolico. Tante decisioni lasciano perplessi, ma è parte del gioco: dove c’è l’uomo, c’è il bene e il male; mentre dove c’è la presenza di Dio, c’è solo il bene. Ecco perché, secondo un altro gigante della teologia (maestro anche di Biffi), Charles Journet, la Chiesa è santa ma non priva di peccatori. Se la si trasforma in una Ong è inevitabile che il suo messaggio diventi un’opinione tra le tante. Mi pare, poi, che non ci si renda conto dello stato di secolarizzazione: il modo di pensare comune è sempre più lontano dalla mentalità cristiana. Chi non se ne avvede, mi pare, sono proprio i pastori e i loro primi collaboratori, che si chiudono in un attivismo sociale senza fine ma in grado di raggiungere, ormai, sempre meno persone. Nel mio libro ironizzo su figure presenti in quasi tutte le Parrocchie nel tentativo di far sorridere e soprattutto di far pensare, cercando di mostrare come sia ancora forte il clericalismo e proprio in coloro che lo combattono. Mi pare che spesso si sia buttato via il bambino con l’acqua sporca, perché abbiamo ridotto tutto a un livello umano mentre la Chiesa possiede, sì, un aspetto umano che però è chiamato a trasfigurarsi nel divino. In una parola, rubata a Benedetto XVI: «non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana». Come conservare la serenità? Cito ancora il cardinal Biffi: «Quando uno è convinto che Dio esiste, ed è Padre e approdo di tutti gli esseri, e che Gesù Cristo è risorto, primizia della nostra vittoria, non può non essere allegro nel profondo del suo essere, per quanto male gli vadano le cose e per quanto deludente gli possa sembrare la cristianità».

  • Reverendo, siamo all’ultima domanda, la settima. Sette come i Sacramenti, quelli che il povero don Augusto vede desolatamente trascurati e calpestati. Cosa ne pensa?

Rispondo anzitutto con una frase di don Divo Barsotti: «Una Messa è più grande di tutta la storia, di tutta la vita della Chiesa perché la storia del mondo, la vita di tutta la Chiesa non sono che una partecipazione all’Atto sacrificale del Figlio di Dio. Se tu non lo credi, hai già rinunziato alla fede». Sono persuaso che la Liturgia abbia un importanza decisiva per il fedele e sia un tema molto rilevante e delicato. Non si tratta di ritualismo, ma di comprendere cosa succede nella funzione. Se tutto è orizzontale, una cosa fatta tra noi, una “cosa nostra”, allora va bene tutto: battiti di mano, canzonette sincopate, applausi e show di ogni genere con annesso il “presentatore” dello spettacolo. È giusto e persino doveroso. Anche se poi non si capisce perché si abbia così poco successo! Nel tentativo di svecchiare la Liturgia forse non ci si avvede che i banchi della chiesa sono occupati perlopiù da anziani. Al contrario, se la Liturgia è qualcosa di “verticale”, che ambisce alla “cose di lassù”, allora i fattori in gioco cambiano. Ma attenzione non siamo davanti a un aut-aut: orizzontale o verticale. No! Amare Dio è necessario per amare il prossimo, non viceversa: capire l’aspetto verticale è ciò che consente di vivere bene quello orizzontale. Qui, la questione si fa più complessa: non è il piacere, ma la verità (che è poi il grado minimo dell’amore) a dettare le regole. E quando non sono capite? Si spiegano (catechesi). E quando non sono accettate? Si “pregano”, potremmo dire in modo sgrammaticato, cioè si chiede a Dio di aprire le menti e i cuori. Modificare una composizione di Mozart, Bach o Beethoven per assecondare un gusto personale o di massa non la rende più bella, ma stonata. Lo spartito della Liturgia è già scritto da compositori sapienti (certo più sapienti di chi improvvisa, ci sono pochi Chopin in giro!) e lì uno scopre come sia sublime la musica (e la celebrazione). Questo non è formalismo, ma affidamento: il rito è il contenitore che contiene un contenuto sacro e incredibile! Davanti a un personaggio famoso che ammiriamo non improvviseremmo, ma saremo attenti a ogni particolare. Ebbene nel Sacramento, quale sia, c’è molto di più! La musica sacra, per continuare con l’esempio, non può essere sulla falsariga di quella corrente, ma deve elevare, il suo compito è far entrare nel Mistero attraverso la preghiera (e non a far provare un’emozione fuggevole). Deve portare a vivere un’esperienza totalmente diversa da quella abituale (un’emozione prolungata che tocca la volontà), altrimenti riduciamo il Mistero a qualcosa di nostra portata. Forse, quella che manca – in tutti – è una capacità di autocritica: siamo convinti che il solo fare una cosa sia di per sé giusto, ma non verifichiamo mai l’agire (e facciamo “male” molte cose!). E allora i canti nuovi sono quelli di cinquant’anni fa, allora bisogna svecchiare la Liturgia con il risultato di avere le chiese mezze vuote, allora bisogna semplificare fino a diventare stucchevoli o banali. Vengono in mente le parole del compianto cardinal Carlo Cafarra: «Una Chiesa povera di dottrina non è una Chiesa più pastorale, è semplicemente una Chiesa più ignorante».

Paolo Gulisano

http://campariedemaistre.blogspot.com/2020/05/un-campari-con-samuele-pinna-e-don.html

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