A cena con Oscar Wilde e Conan Doyle

Il sodalizio umano e culturale tra celebri penne ricostruito da Paolo Gulisano

Nell’amicizia, quella vera, non ci deve essere nulla di finto. Franchezza e schiettezza, invece, sono gli elementi fondanti: parola di Cicerone, che nel dialogo intitolato, appunto De Amicitia, dichiara che essa è superiore a qualsiasi altro bene perché dona speranza e non fa piegare l’individuo di fronte al destino, anche il più inclemente. Se poi l’amicizia viene a cementarsi tra uomini di ingegno eccelso, maestri di sapere e di penna, non c’è dubbio che il legame viene a caricarsi e a fregiarsi di motivi ancor più alti. Si tratta di un patrimonio di grande valore in cui confluiscono la dimensione umana e la dimensione culturale, nel segno di un reciproco e fertile arricchimento. Getta una forte luce su tale patrimonio l’intrigante e interessantissimo libro di Paolo Gulisano Là dove non c’è tenebra. Storie di amicizia tra scrittori (Milano, Edizioni Ares, 2019, pagine 208, euro 14), appena uscito in libreria, in cui l’autore dichiara che la sua esplorazione «si limita volutamente agli ultimi due secoli, alla modernità, un tempo nel quale l’amicizia è diventata sempre più problematica».

L’amicizia risulta essere un’alleata assai preziosa quando si intende scendere nell’abisso del cuore umano: è il caso di Nathaniel Hawthorne ed Herman Melville. All’inizio di Moby Dick c’è una dedica ad Hawthorne: è l’omaggio a un grande amico con cui Melville aveva condiviso lunghe chiacchierate. L’opera uscì pochi mesi dopo che nelle librerie era arrivato il capolavoro del collega, La lettera scarlatta. Due grandi libri: «Uno faceva i conti con la storia della giovane nazione americana, l’altro con l’epica oceanica — scrive l’autore —. Entrambi, in ogni caso, rappresentavano un’esplorazione degli angoli più cupi del cuore umano». Una vera e propria discesa nell’abisso, appunto. Una discesa che i due scrittori hanno condiviso a Boston, allora il centro culturale propulsivo del paese: accanto ai club esclusivi, agli austeri ambienti bostoniani, agli eredi del puritanesimo dagli orizzonti ristretti, si era sviluppata una vivace vita intellettuale. In questo contesto così poliedrico si affermò una narrativa che anelava a dare voce alle diverse anime di un’America che stava cambiando a causa del forte impatto industriale, tecnologico e finanziario, e anche in virtù dell’arrivo di migliaia di emigranti provenienti dall’Europa. E in un’America in rapida evoluzione la letteratura affrontò l’esigenza di ritornare alle origini, alle realtà locali che sembravano destinate a scomparire «sotto la minaccia della modernizzazione incombente e della standardizzazione progressiva dei costumi».
Melville crebbe in un’America ancora legata a un passato di cui si avvertiva la nostalgia, dove all’ebbrezza per l’irrompere di un mondo tecnologico si accompagnava il desiderio di conservare realtà semplici e domestiche, fatte di attenzione per le piccole cose. Melville e Hawthorne si erano conosciuti quando Melville aveva preso dimora nel New England, ponendo così fine alle sue avventure marinaresche. La loro amicizia fu di stimolo intellettuale per entrambi, in particolare per l’autore di Moby Dick, che definì l’amico come lo scrittore americano in possesso della «qualità geniale più eccelsa e insieme più profonda di quella che finora non abbia dimostrato un qualsiasi altro americano nella carta stampata». Melville lesse La lettera scarlatta mentre si accingeva a scrivere Moby Dick. Una lettura che certamente non lo lasciò indifferente tanto che in una lettera all’amico gli scrisse che nessuno meglio di lui ha incarnato con più potenza una «certa tragica fase dell’umanità», ovvero l’apprensione per la ricerca della verità.

L’amicizia può essere vissuta da individualità molto diverse, come, per esempio, Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri. Il primo, una delle figure più note e celebrate della cultura italiana, e non solo; il secondo, scrittore
non più che mediocre. Leopardi incontrò Ranieri a Firenze nel giorno del suo trentesimo compleanno, il 28 giugno 1828. Il poeta era in una fase cruciale della sua vita: era passato dal giovanile classicismo, ispirato alle opere dell’antichità greco-romana, al romanticismo, che proprio in quegli anni stava suscitando sia forti interessi che aspre polemiche. Tra Giacomo, chino sui libri e assorbito dalla riflessione, e Antonio, brillante, di bell’aspetto (e donnaiolo) che cosa fece scattare un profondo sodalizio? Non è facile trovare una risposta univoca. La guasconeria di Ranieri nascondeva, in realtà, una certa fragilità, che ben si coniugava con la morbida sensibilità di Leopardi, che nell’amico trovava un solido sostegno nel domare i marosi della vita in società. Sia nei Pensieri che nello Zibaldone Leopardi descrive l’amicizia come una delle tante illusioni degli uomini: ma il legame con Ranieri era destinato a smentire tale assunto. La loro amicizia — scrive Gulisano — fu «la somma di due fragilità».

L’amicizia sa anche sorprendere, quando lega due inguaribili narcisisti che, in teoria, non dovrebbero andare d’accordo. Eppure tra Percy Bysshe Shelley e George Gordon Byron — gli iniziatori del movimento romantico, poeti ribelli e anticonformisti — venne a stabilirsi un’unione fondata sul desiderio accanito di sapere e di ghermire le tante manifestazioni della bellezza. Un giorno, da San Terenzo, Shelley salpò alla volta della costa livornese per raggiungere Byron (con lui voleva discutere la possibilità di realizzate una rivista politica e culturale). Nel ritorno, sorpreso da una tempesta, fece naufragio nel mare di fronte a Lerici. Byron non sarebbe sopravvissuto a lungo all’amico. Catturato dall’idea di restituire la libertà alla Grecia, oppressa dal potere ottomano, si unì, a Cefalonia, a una sorta di brigata internazionale che avrebbe dato sostegno alla guerra di indipendenza. Il poeta, in seguito a una meningite, morì a Missolungi: con sé aveva il manoscritto dell’incompleto Don Juan, il nome della barca sulla quale era naufragato Shelley.

Fu un grande sodalizio spirituale quello tra Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini: l’incontro fra i due risale al 1826, quando il giovane sacerdote trentino arrivò a Milano. In quello stesso anno i due iniziarono un ricco
carteggio che mise in evidenza la loro comunione di idee su svariati argomenti, nonché il reciproco desiderio di migliorarsi, attingendo l’uno dall’altro informazioni, consigli e critiche. Rosmini, tra l’altro, aveva letto il Fermo e Lucia e, da buon classicista, e aveva dato alcuni suggerimenti a Manzoni riguardanti la lingua e lo stile. La stima che lo scrittore milanese aveva per l’amico si specchia esemplarmente in tale affermazione: «Il Rosmini è una delle sei o sette intelligenze che più onorano l’umanità». Del resto agli occhi di Manzoni, l’amico aveva acquistato ampio credito perché era stato tra i primi a cogliere il valore religioso che permea di sé i Promessi Sposi, mentre altri intellettuali si erano concentrati su temi inerenti il versante politico o la denuncia sociale, perdendo di vista il fine ultimo, ed edificante, dell’opera.

Ci fu una cena (una sera di settembre del 1889) all’origine di due capolavori, Il Segno dei quattro e Il ritratto di Dorian Gray, firmati rispettivamente da Arthur Conan Doyle e Oscar Wilde. E fu quella cena, cui partecipò un terzo commensale, l’editore statunitense Joseph Stoddart, a innescare un legame che ben presto si trasformò in amicizia. L’editore propose a entrambi di cimentarsi ciascuno con un racconto dove fosse presente il mistero, e almeno un delitto: pur lungimirante nell’intuire gli scrittori di razza, Stoddart non avrebbe certo immaginato che dalla sua proposta sarebbero sgorgate due opere capaci di resistere alle ingiurie del tempo.

Facendo un’eccezione al criterio cronologico che informa il libro, l’autore lascia per ultima la coppia di amici (numerose altre sono trattate nel corso della narrazione) John Ronald Reuel Tolkien e Clive Staples Lewis. E lo fa per un motivo preciso. Nel Signore degli Anelli — scrive Gulisano — vi sono tre immagini iconiche dell’amicizia: la prima è quella di Gandalf nelle miniere di Moria, quando la Compagnia dell’Anello affronta un nemico terrificante, il mostruoso Balrog. L’altra immagine è quella di Gimli e Legolas. Di fronte ai Neri Cancelli di Mordor, alla fine dell’impresa, tutto ormai sembra perduto. Il nemico è molto più numeroso: la fine è inevitabile. A quel punto Gimli mormora contro il fatto di dover morire accanto a un elfo. «E accanto a un amico?» gli chiede Legolas. A quel punto la durezza del nano si scioglie. «Sì, accanto a un amico si può» mormora commosso. La terza immagine iconica è quella di Sam e Frodo sulle ultime propaggini di Monte Fato. Frodo è ormai stremato. Accanto a lui c’è l’amico fedele, che non lo ha mai abbandonato. Sam vorrebbe prenderlo lui quel fardello, ma Frodo non glielo permette. «Se non posso portare l’Anello — dice l’Hobbit — allora porterò voi», e si carica Frodo sulle spalle percorrendo gli ultimi metri prima dell’ingresso al vulcano. L’amico — sottolinea Gulisano — è anche questo: colui che prende su di sé il peso dell’altro, le sue sofferenze. E l’amicizia consiste anche e soprattutto nel non sentire quel peso, seppur gravoso, come tale. «In nulla mi considero felice se non nel ricordarmi dei miei buoni amici» afferma, nel Riccardo II, William Shakespeare.

Gabriele Nicolò – L’Osservatore Romano

http://www.osservatoreromano.va/it/news/cena-con-oscar-wilde-e-conan-doyle

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *