Il dottor Frankenstein ora stampa mostri in 3D

Il destino di FrankensteinTra un mesetto tocca a Daniel Radcliffe, l’ex Harry Potter: abbandonati gli spalti della scuola-fortezza di Hogwarts, adesso si aggira nel laboratorio dello scienziato più temibile di tutti i tempi, indossando gli scomodi panni dell’assistente Igor.

Il personaggio, a dire il vero, non compare nel Frankenstein di Mary Shelley, ma chi ha visto l’irresistibile Frankenstein Junior di Mel Brooks (1974) sa di che cosa stiamo personaggio, a dire il vero, non compare nel parlando. Il nuovo Victor: la storia segreta del dottor Frankenstein, diretto da Paul McGuigan con James McAvoy nel ruolo del protagonista, sarà nei cinema italiani ai primi di aprile, sulla scia della rivisitazione dei classici letterari nello stile dei film d’azione (avete presente lo Sherlock Holmes di Robert Downey Jr?).

Sarà magari divertente, ma rischia di risultare meno interessante del pur imperfetto Frankenstein di Bernard Rose, in programmazione dal 17 marzo. Si tratta di una co-produzione tedesco-americana di bugdet molto contenuto, senza interpreti di grido a parte Carrie-Anne Moss (la Trinity della trilogia di Matrix), che qui impersona la contraddittoria moglie e collaboratrice dell’ostinato dottore. Nella sceneggiatura le buone intuizioni non mancano: la vicenda non solo è ambientata ai giorni nostri, ma anche geograficamente trasferita dai maestosi paesaggi alpini dell’originale al piatto paesaggio urbano dei sobborghi di Los Angeles. Il commento fuori campo, affidato alla voce di Adam (è il nome della “creatura”, impersonata da Xavier Samuel), è interamente composto da citazioni del romanzo, il cui stile aulico stride con la crudezza un po’ troppo da Bmovie di diverse scene. A dispetto delle non rare cadute di gusto e delle molte immagini raccapriccianti, il film ha comunque il merito adottare senza esitazioni il punto di vista che fu di Mary Shelley e sul quale si soffermano con ricchezza di informazioni Paolo Gulisano e Annunziata Antonazzo nell’ottimo Il destino di Frankenstein (Ancora, pagine 168, euro 15, prefazione di Saverio Simonelli). Il saggio non si limita a ricostruire le vicende biografiche della scrittrice e a fornire indicazioni sul prosieguo della sua attività letteraria, ma è molto preciso nel dare conto della temperie culturale in cui Frankenstein fu concepito.

A differenza del suo compagno, il poeta Percy Bysshe Shelley, la diciannovenne Mary – figlia di una coppia di intellettuali notoriamente progressisti, lo scrittore William Godwin e la protofemminista Mary Wollstonecraft – non sembra annettere alcun valore positivo al mito di Prometeo, del quale il romanzo costituisce un’esplicita rivisitazione moderna. Se Shelley nel suo Prometeo liberato accoglie con entusiasmo l’interpretazione illuminista e antioscurantista tipica dell’epoca, Mary fa suo il tema dell’hybris, ossia della superbia colpevole, sul quale poggiava già la tragedia di Eschilo. È l’ambizione delirante del playing God, come la definiscono Gulisano e Antonazzo: giocare a essere Dio o, meglio, recitare come se si fosse Dio.

Il Frankenstein del film di Rose è convinto di poterselo permettere, grazie all’invenzione di una specie di sofisticata stampante 3D dalla quale il suo Adam esce con le fattezze di adolescente efebico, dotato però delle capacità mentali di un neonato. La creatura progredisce rapidamente, ma in modo altrettanto veloce le cellule del suo corpo degenerano, rendendone sempre più ripugnante l’aspetto. Non tutto nella trama procede secondo logica e la sgradevolezza prende spesso il sopravvento, ma almeno la prospettiva è chiara.

Oltre a ribadire le intenzioni dell’autrice, Il destino di Frankenstein di Gulisano e Antonazzo è molto puntuale nel rintracciare modelli e antecedenti letterari del romanzo, in una gamma di riferimenti che va dalla Bibbia al Paradiso perduto di Milton. Di grande interesse anche le osservazioni sul versante scientifico: nonostante la cultura protestante di cui Frankenstein è impregnato, gli studiosi ai quali si fa riferimento nel testo, come l’abate Spallanzani e lo stesso Luigi Galvani, erano cattolici di provata osservanza. Una circostanza che rende ancora più complesso e attuale l’intreccio immaginato dalla giovanissima scrittrice.

Alessandro Zaccuri

Da Avvenire di venerdì 26/02/16 pag. 11

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