Intervista a Paolo Gulisano sul mestiere di scrivere

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Paolo Gulisano, l’uomo che sa tutto di J. R. R. Tolkien

Paolo Gulisano, scrittore e giornalista, è uno dei più apprezzati cultori e critici italiani di letteratura fantasy e, in particolare, dell’opera dello scrittore britannico J.R.R. Tolkien. Amneris Di Cesare è riuscita a intervistarlo.

Prima domanda di rito: perché scrivere? Come è nata questa “necessità” e quando?

Scrivere è per me una necessità, un elemento costitutivo della mia identità personale. Fin dalle scuole elementari mi divertivo a scrivere racconti, a inventare personaggi. Erano per lo più racconti avventurosi, frutto delle mie letture infantili che avevano avuto una notevole importanza nella formazione del mio immaginario: i romanzi di Jules Verne e di Jack London, e le antiche leggende di cavalieri. Leggevo anche fumetti, come Topolino, che nutrivano ulteriormente la mia fantasia. Ma oltre che essere un lettore avido, amavo fantasticare e mettere sulla carta i miei sogni. Direi quindi che la necessità di scrivere si è manifestata decisamente molto presto!

Come scrivi? Penna e carta, moleskine sempre dietro e   appunti   al   volo,   oppure   rigorosamente   tutto   a video, computer portatile, ipad, iphone?

Ho molta nostalgia della penna e della carta.  Scrivo naturalmente a video, su PC fisso, circondato però da carta: i libri che consulto, e anche gli appunti che sono sempre rigorosamente cartacei! I miei libri nascono sempre su taccuini dove metto appunti e spunti, dove “schematizzo” anche il lavoro da fare.  Da questo punto di vista non sono ancora troppo tecnologicizzato.

C’è   un   momento   particolare   della   giornata   in   cui prediligi scrivere i tuoi romanzi?

Dipende. Dovendo fare per vivere un lavoro che mi impegna dalle 8 alle 17 dal lunedì al venerdì, scrivo quando è possibile. Per cui la fascia oraria più utilizzata è la sera. Tuttavia sfrutto anche i sabati e le domeniche, e in questo caso scrivo dal mattino alla sera. D’altra parte, quando mi prende l’ispirazione, non c’è orario e durata del lavoro che tenga!

Quando scrivi, ti diverti oppure soffri?

C’è una fatica, indubbiamente, da affrontare, soprattutto fisica. A volte verrebbe voglia di spegnere il computer e fare altro, come stravaccarsi in poltrona a guardare la TV o a leggere un giornale, però non la definirei sofferenza. Anche quando c’è un blocco dello scrittore, non è motivo di sofferenza. È una fatica da fare, un ostacolo da superare, come in tutti i lavori.   Comunque una fatica buona, che alla fine lascia soddisfatti: la soddisfazione dell’artigiano che vede uscire dalle proprie mani un’opera nuova. Un vero piacere!

Che cosa significa per te scrivere?

Significa molte cose. Anzitutto esprimere ciò che ho dentro, che nasce dalla passione, dall’interesse per un argomento, per un tema, per dei personaggi, che “chiedono” in qualche modo di essere raccontati, di venire fuori, di prendere forma sulla carta. Scrivere è poi un modo di relazionarsi col mondo. È una modalità di comunicazione, in cui inconsciamente o esplicitamente rivelo me stesso, ovvero ciò che mi sta a cuore, che vorrei fosse letto e conosciuto anche da altri.  È un modo anche di affrontare le difficoltà del vivere quotidiano e di trovare spazi personali, liberi, in cui esprimermi e da cui trarre gratificazione.

Ami   quello   che   scrivi, sempre, dopo   che   lo   hai scritto? Rileggi   mai   i   tuoi   libri, dopo   che   sono   stati pubblicati?

Bellissima domanda! Sì, amo quello che scrivo, e lo capisco nel momento in cui devo lottare con gli editor che magari vogliono cambiare e modificare quello che ho fatto! Mi sento allora come un padre che difende strenuamente i propri figli! Poi, naturalmente, si trova sempre un accordo… Invece, sul rileggere i miei libri, non sempre accade.  Magari vengo già preso dal progetto successivo, da nuove idee. Poi, magari a distanza di qualche tempo, li riprendo in mano e la sensazione è di piacevole stupore: “ma guarda un po’ cosa avevo scritto!”. Magari viene da pensare che si sarebbe potuto fare meglio, che certe cose ora le scriverei diversamente, che eviterei certe ingenuità. Comunque rileggersi a distanza di tempo è sempre un’operazione interessante e utilissima.

Trovi   che   nel   corso   degli   anni   la   tua   scrittura   sia cambiata? E se sì, in che modo?

Credo proprio di sì, soprattutto rispetto ai primi libri. C’è comunque una certa continuità di stile. Credo che il mio scrivere-narrare si sia fatto più tranquillo, più ponderato anche nei giudizi che in un saggio, ad esempio, sono inevitabili.  Spero di non essere diventato per questo noioso!  Dietro questa fondamentale continuità c’è una ricerca incessante, da parte mia, per affinare lo stile. Magari questa ricerca approderà a qualche cambiamento importante,  ma non penso che ci saranno rivoluzioni in vista.

Come riesci a conciliare vita privata e vita creativa?

Cerco di difendere meglio che posso gli spazi della vita artistica dagli assalti della realtà! Scherzi a parte, mi trovo impegnatissimo dalla vita lavorativa (per la cronaca faccio il medico per vivere) ma – come detto- non posso fare a meno dello scrivere, e anche del girovagare a presentare i miei libri, cosa che è molto importante per me perché stabilisce un legame necessario con  i lettori, molti dei quali poi diventano amici.

Il   tuo   curriculum   parla   forte   e   chiaro: sei   un appassionato del genere fantasy. Perché? Cosa c’è di diverso in questo genere che non trovi negli altri?

Se negli anni dell’infanzia era stata l’avventura ad affascinarmi, nel tempo dell’adolescenza il mio interesse si era spostato sul romanzo storico e sulla mitologia. Di lì al genere Fantasy il passo è stato breve. Venni folgorato sulla via di Oxford da J.R.R. Tolkien, naturalmente, ma ci furono altre due autrici fondamentali nell’attrarre la mia attenzione verso la letteratura fantastica: la scozzese Mary Stewart con la sua rivisitazione del ciclo arturiano e Ursula Le Guin con la sua saga di Earthsea.  Poi vennero immediatamente tanti altri autori. Il fascino principale di questo genere letterario sta in quella dimensione che Tolkien chiamava “subcreazione”: la fantasia non come fuga dalla realtà, ma come sorgente a cui rinfrescarsi e abbeverarsi.  La letteratura fantastica offre anche l’occasione per ripensare la storia, e io amo moltissimo la storia, e mi piace immergermi nel passato e ripensarlo, come fa spesso la narrativa dell’immaginario.

Il  fantasy   viene   spesso   trattato   come   un   genere di serie   B,   soprattutto   a   scuola,   dove   si   studia   come tipologia   di   stile   narrativo   ma   spesso   trattandolo come uno strumento di pura evasione e riservato ai lettori più piccoli. Tu cosa ne pensi? Perché avviene questo e come si può fare a cambiare mentalità agli educatori?

È un pregiudizio molto radicato quello che vede il fantasy come una letteratura di serie B, per bambini o per adulti infantili e immaturi. In realtà ci si dimentica che i più grandi capolavori della storia della letteratura sono quasi sempre state opere piene di immaginazione, dall’epica di Omero e Virgilio, alla stessa Divina Commedia, a Shakespeare. La letteratura fantasy è l’erede della mitologia, dell’epica, della leggenda medievale, generi classici e “nobili”.  Bisogna ridare dignità a questa letteratura, e in tutti i miei saggi, da Tolkien a Lewis, da Re Artù a Moby Dick, da Peter Pan a Frankenstein, ho cercato di dimostrarlo.

Sei   il   maggiore   esperto   italiano   di   J.R.R.   Tolkien e delle sue opere. Puoi parlarci di come è nata questa tua passione cosa ti trasmise allora, cosa continua a trasmetterti oggi e perché è importante che le nuove generazioni la leggano?

Scoprii Tolkien alla fine degli anni ’70, dopo aver finito il Liceo. Ero un grande appassionato delle antiche saghe celtiche di Scozia e Irlanda, ero restato poi incantato dal Beowulf, e poi scoprii che c’era un autore moderno che aveva provato a riproporre questo genere epico. Inizialmente ero un po’ scettico (incredibile a dirsi!), ma poi, curioso come sono, non potei esimermi dal leggere Il Signore degli Anelli. Fu amore a prima vista.  La saga dell’Anello non mi bastò: immediatamente cercai altro, Lo Hobbit, Il Silmarillion, qualunque cosa Tolkien avesse scritto, e qualunque saggio in inglese fosse stato pubblicato.  Tolkien è un genio, ha realizzato un’opera straordinaria, unica. Anni fa lo definii l’Omero cristiano del ‘900, e sono più che mai convinto di questa definizione che sintetizza la sua opera mitopoietica dal grande respiro sacrale e religioso.

Anche tu, come Silvana De Mari, ritieni che il fantasy sia un mezzo importante per veicolare messaggi su tematiche sociali e contemporanee e se sì, perché?

Sono assolutamente d’accordo con Silvana. Il fantasy, come i generi da cui trae origine, il mito e l’epica, così come un suo stretto “parente”, la fiaba, può essere occasione per mostrare valori importanti. Dico- e sottolineo- mostrare, perché la letteratura, a differenza della filosofia, della psicologia, della teologia, non deve dimostrare nulla, ma solo far vedere. Far vedere- come accade con Tolkien- quanto sia affascinante, amabile e desiderabil ciò che è buono, bello, saggio, generoso, e quanto sia detestabile il male. Virtù in azione: ecco quello che ci può mostrare il buon fantasy.

Nell’antologia multi saggio Il Fantastico per ragazzi, a cura di Marina Lenti ed edito da Runa Editrice, tu parli de Le Cronache di Narnia di C.S. Lewis: qualche anticipazione?

Lewis è un autore la cui biografia si incrocia strettamente con quella di Tolkien, anche se il suo mondo fantasy è molto diverso da quello dell’amico e collega.  Sono partito da questo dato personale, dalla visione del mondo di questo autore, per decriptare i simboli di cui Le cronache di Narnia sono ricchissime. Ne uscirà un quadro un po’ diverso dalla semplice fiaba pedagogica per bambini che è l’etichetta appiccicata a questa saga.

Nell’antologia multi saggio Il Fantastico per ragazzi vengono analizzate le saghe fantasy più famose degli ultimi anni: in quell’elenco assai ricco ce n’è una che conosci e che ti ha colpito? Quale e perché?

Intanto devo ammettere che molte di queste saghe non le ho lette. I motivi sono diversi, in ogni caso non c’è pregiudizio su nessuna, solo… il tempo non basta. Per cui devo confessare che delle varie saghe che tratteranno le mie colleghe, mi sono note solo quella di Harry Potter e L’Ultimo Elfo. Prometto che in futuro mi dedicherò anche a Shadowhunters, Hunger Games eccetera.   Per quanto riguarda invece le opere di Silvana De Mari e J.K. Rowling, sono molto diverse, ovviamente. Della Rowling colpisce lo sterminato immaginario, nonché l’abilità narrativa. Della De Mari la sensibilità umana e lo spessore narrativo.

Cosa   pensi   della “deriva   urban”   del   fantasy contemporaneo?

A questo filone appartengono autori interessanti, come Neil Gaiman o la Robin Hobb.  Per non parlare di un film di trent’anni fa che fu un vero gioiello cinematografico: Highlander, con Christopher Lambert.  Poteva essere il capostipite di un certo tipo di fantasy, magari con un occhio più alla storia che agli scenari urbani, che personalmente non amo molto, anche se bisogna dire che l’irruzione del fantastico nella quotidianità, che è uno dei focus dell’urban fantasy, è interessante e stimolante. Io tuttavia continuo a preferire la sub creazione, il “secondary world”, senza contaminazioni con la quotidianità.

A cosa stai lavorando ultimamente e quando uscirà il tuo nuovo romanzo?  Vuoi parlarcene?

Sono alle prese con la saggistica. A maggio è uscito “Un uomo per tutte le utopie”. Quest’anno ricorrono i 500 anni dalla pubblicazione di Utopia di Tommaso Moro, il capostipite del genere letterario che prende il nome dall’opera del grande inglese. Da Moro a Bacone, dai viaggi di Gulliver alle distopie di Orwell e Huxley, per concludere ancora una volta con le utopie meravigliose della Terra di Mezzo e di Narnia, ripercorro la storia di questo genere letterario. Poi… ci sono altre idee in cantiere, la principale delle quali è un fantasy per ragazzi.  Ma ne riparleremo…

Angela   Di   Bartolo,  tua   fan   e   scrittrice   fantasy, domanda:  C’è qualche autore a Suo parere decoroso, fra quelli che si sono ispirati a Tolkien? O sono tutti scialbi imitatori?

Innanzitutto diciamo che la stessa Angela Di Bartolo ha tutte le potenzialità per diventare una grande scrittrice di Fantasy, e lo affermo senza alcuna piaggeria.  Tra gli autori che ho letto di recente ho apprezzato Joseph Delaney, sebbene siamo molto lontani dalla brillantezza narrativa e dal fascino di Tolkien. I suoi eredi vanno cercati molto lontano dal “Dark Fantasy” (o Dirty?) che oggi va per la maggiore, stile Martin o Abercrombie.  Oggi il rischio nel panorama letterario non è tanto quello dell’imitazione di Tolkien, che era tipico di una generazione fa (vedi il ciclo di Shannara o molte opere della Zimmer Bradley)  quanto il rovesciamento delle sue prospettive epiche e allo stesso tempo fiabesche, che comunicavano nostalgia per il Bello e il Buono. Oggi il rischio è quello di una fantasia che superi in oscura malvagità la stessa realtà.

Un consiglio a un aspirante scrittore?

Scrivere, scrivere! Tentare, fare e riprovare, non arrendersi di fronte alle difficoltà, alle resistenze degli editori, alla frustrazione che ne consegue. Scrivere nutrendosi prima abbondantemente alle fonti, ai maestri, per poi esprimere la propria originalità. Se il talento c’è, sono convinto- forse ingenuamente- che alla fine venga sempre premiato.

Amneris Di Cesare (www.babettebrown.it)