Paolo Gulisano è nato a Milano nel 1959, ma vive a Lecco. Si laurea in Medicina e Chirurgia, specializzandosi in Igiene e Medicina Preventiva. E’ docente di Storia della Medicina e, all’attività di medico, affianca da anni il suo impegno culturale di scrittore. Ha collaborato con diversi quotidiani e riviste fra cui “L’Osservatore Romano”, “La Bussola Quotidiana”, “I quaderni di Avalon” etc.
E’ fra i più apprezzati critici italiani di letteratura fantasy e in particolare di J. R: R. Tolkien. Il suo esordio, come scrittore di saggi, avviene nel 1996 con il libro “Cristeros!”. Fra le sue numerose pubblicazioni si ricordano volumi su Gilbert Chesterton, Giovannino Guareschi, Hilaire Belloc, sulla storia della Scozia, su quella dell’Irlanda e su San Colombano, una biografia di Clive Staples e di George MacDonald, due volumi sulla storia della medicina: “Pandemie” nel 2006 e “L’arte del guarire nel 2011”. Nel 2011 Paolo Gulisano ha esordito nella narrativa con il romanzo di fantascienza “Il destino di padre Brown”.
Francesca Rita Rombolà dialoga di attualità, poesia, storia e altro con il dottor Paolo Gulisano.
D – Dottor Gulisano, iniziamo a dialogare parlando della sua passione per la letteratura fantasy. Come nasce e perché? Il genere fantasy, secondo lei, è seguito e apprezzato in Italia?
R – La mia passione per la letteratura fantastica inizia sui banchi del liceo, nasce dall’amore per la Mitologia, per l’Epica classica in cui ci sono tutti gli archetipi della narrativa: il tema del viaggio, dell’impresa da compiere, dell’eroismo, dello scontro tra bene e male, dell’amore e della morte. Poi, un giorno, scoprii che, oltre alle grandi narrazioni antiche e alle saghe medioevali, nel corso del Novecento c’era stato un ritorno all’Epica grazie ad autori quali Tolkien e Lewis. La narrativa fantasy rappresenta, nelle sue forme più alte, un ritorno a questa narrativa mitologica che non è semplicemente una letteratura”minore”, un semplice racconto per ragazzi o una storia fantasy di evasione, ma è la rappresentazione di valori umani profondi, un affresco della condizione umana e, in particolare, ne”Il Signore degli Anelli” il racconto intenso e affascinante di una lotta iniziata agli albori dei tempi scritta da un uomo dalla biografia apparentemente semplice e tranquilla che fu, invece, uno dei più grandi scrittori del Novecento e che, ridando dignità all’arte umana della subcreazione, ci ha insegnato a ricercare la Bellezza e la Verità. La letteratura dell’immaginario ci ha dato anche altri capolavori, che sono stati catalogati nella “letteratura di genere” ma che sono opere le quali suscitano spunti di riflessione profonda, come “Frankestein” di Mary Shelley o “Dottor Jekyll e Mister Hyde” di Stevenson, storie che amo molto e sulle quali ho scritto.
D – Ha scritto principalmente saggi di storia, vero? Crede che lo studio della storia, ma soprattutto la conoscenza della storia in sé sia importante, o necessaria, allo studente come all’uomo di cultura e a quello della strada?
R – Sì, ho scritto diversi saggi storici, soprattutto pagine poco conosciute. La parola “storia” ha un significato molto interessante: in greco significa “ricerca”. Studiare la Storia significa mettersi alla ricerca della verità, per questo credo che sia estremamente interessante. Oggi viviamo in una dimensione globale che enfatizza l’informazione. Siamo sommersi da informazioni, molte delle quali false o ingannevoli. Dovremmo invece privilegiare la formazione. E per formarsi non ci vogliono le cosìddette news, ma i libri. I libri di storia ci fanno conoscere il passato, da dove veniamo, e possono aiutarci a discernere ciò che avviene nel presente. Poche discipline di studio sono così importanti come la Storia, che anticamente veniva definita “maestra di vita”, ed è effettivamente così.
D – Cosa mi dice della Scozia, ma soprattutto dell’Irlanda con la sua unicità umana e religiosa in primis? Insomma delle antiche e insieme moderne nazioni celtiche sulle quali ha scritto anche dei libri?
R – Ho sognato della Scozia e dell’Irlanda fin da quando avevo vent’anni. Erano terre mitiche, con una storia (appunto) drammatica e affascinante.Mi colpiva lo spirito celtico antico, libero, indomito, appassionato. Ne studiai a fondo la storia ma anche l’arte, la cultura, gli usi e i costumi e la spiritualità. Poi mi recai sul posto temendo, in fondo, di poter rimanere deluso, di non ritrovare quello che avevo incontrato nei libri. Ma la realtà non mi deluse. In Scozia, come in Irlanda, mi sento a casa. Rappresentano una vera e propria “patria dell’anima”. Sono passati quarant’anni dal mio primo viaggio, e molto è cambiato. Ma quando mi trovo nelle brughiere delle Highlands o sulle scogliere del Donegal mi sento ancora una volta a casa. Seguo sempre con trepidazione le vicende che potrebbero portare da una parte – la Scozia – all’indipendenza e, dall’altra – l’Irlanda – all’agognata riunificazione.
D – Lei è anche medico, perciò salva vite umane. Come vede se stesso in questa veste? La sua è una professione, lo svolgimento di un lavoro soltanto, una missione, una vocazione, o altro?
R – La Medicina è innanzitutto un’arte. Questa definizione la si trova nella Bibbia. Il Libro del Siracide dice che quella del medico è l’arte del guarire. Ed è proprio così. Per me la Medicina è anche una missione. prendersi cura delle persone secondo scienza e coscienza. Io non posso che far mio quello che è stato per duemila anni il compito autentico della Medicina: farsi carico, con piena consapevolezza, della sofferenza che si incontra, della malattia e della morte in tutte le circostanze del mio lavoro. Il compito del curare ha avuto e ancora oggi, ogni giorno, ha a che fare con il singolo segnato dalla malattia nel suo corpo e nel suo spirito. L’arte medica si può dire che nasca insieme all’uomo: a fronte della malattia, dei sintomi morbosi, o di una ferita, fin dall’alba dei tempi ci sono stati uomini che si sono prodigati per combattere le condizioni che minacciano lo stato di salute. Io voglio continuare questo compito, anche in un’epoca in cui la Medicina sta perdendo la sua dimensione umanistica e sta diventando ipertecnologica, da una parte, e dall’altra è sommersa dalla burocrazia.
D – La sua percezione profonda di questi primi decenni del ventunesimo secolo.
R – Stiamo vivendo un tempo di sfide drammatiche. Il Terzo Millennio dell’Era Cristiana si è aperto con una violenza terribile, con gli attentati alle Torri Gemelle di New York, e poi è proseguito con guerre e soprattutto con un dispotismo sempre più pesante che magari non assume il volto brutale delle dittature del Novecento, ma che vuole stabilire un pericolosissimo pensiero unico. E’ quello che vine chiamato “Nuovo Ordine Mondiale”, oppure “Grande Reset”. Un mondo nuovo che ricorda quello delle peggiori distopie letterarie. Il male sembra prevalere ma, come ci ha insegnato Tolkien, il nostro compito è di resistergli e di consegnare, a chi verrà dopo di noi, una “terra buona e sana da coltivare”.
D – “Giuseppe Moscati. Il santo medico” è il suo ultimo libro, se non sbaglio, pubblicato dall’Editrice Ares. Vuole parlarne un pò?
R – Ho scritto questo libro, che ha inaugurato una collana dell’Editrice Ares significativamente intitolata “Un santo per amico”, raccontando di un medico santo, Giuseppe Moscati. Fu un clinico straordinario, uno scienziato, un benefattore dell’umanità. Ma soprattutto fu un santo, e non lo diventò solo perché era un bravissimo medico ma perché fu sempre orientato a Dio e al bene supremo dell’essere umano. Si pose sempre di fronte al malato prendendosi cura della salute integrale del paziente, e quindi non solo della salute del corpo bensì anche di quella dello spirito. Si dedicava soprattutto alla cura dei poveri e dei bisognosi. Ogni mattina, prima di recarsi in ospedale, si alzava presto per visitare gratuitamente a domicilio la povera gente. Nel suo studio privato, come onorario, vi era un cestino con la scritta: “Chi può metta qualcosa. Chi ha bisogno prenda”. Fu un medico eccellente e caritatevole, insigne ricercatore e docente, uomo di grande dirittura morale e di fede profonda che giunse alla santità incarnando, nell’ordinaria concretezza dell’esistenza quotidiana, l’ideale del laico cristiano. Ho voluto raccontare la storia straordinaria di questo medico, di questa persona, che divenne santa semplicemente perché aveva il cuore pieno di amore per Dio e di volontà di fare del bene al prossimo.
D – La Poesia per lei in due parole.
r – La Poesia è amare e narrare la realtà trasfigurandola per mezzo delle parole. La parola è uno dei doni più belli che Dio ha fatto agli uomini e, quando diventa poesia, ci porta ad avvicinarci a Lui.
Francesca Rita Rombolà
Paolo Gulisano