TOLKIEN E TOMMASO MORO: DALL’UTOPIA ALL’EUTOPIA

Il 2 settembre del 1973, cinquant’anni fa, moriva in Inghilterra John Ronald Tolkien, l’autore del capolavoro Il Signore degli Anelli. Il nostro collaboratore Paolo Gulisano è considerato uno dei maggiori esperti italiani del grande scrittore, cui ha dedicato un celebre saggio, Tolkien il Mito e la Grazia, che l’Editrice Ancora ripropone in occasione del 50° anniversario in una edizione arricchita da un saggio inedito in appedice su “Tolkien e Tommaso Moro: dall’utopia all’eutopia. Per gentile concessione dell’editore ne pubblichiamo alcune parti. 

Tra le fonti e i maestri di Tolkien ne rimane ancora uno, del quale anche i maggiori esperti del professore di Oxford non hanno mai parlato: Sir Thomas More, ovvero san Tommaso Moro. 

Nel 1516 fu pubblicata un’opera destinata ad essere non solo un capolavoro immortale, ma anche a costituire un vero e proprio paradigma in campo letterario, filosofico e politico. Utopia era nata dalla fervida mente dell’inglese sir Thomas More. 

Il 22 giugno del 1935 Papa PioXI proclamò santo l’ex Lord Cancelliere d’Inghilterra, che si era rifiutato di accettare l’Atto di Supremazia del re Enrico VIII sulla Chiesa in Inghilterra e di disconoscere il primato del Papa, e fu condannato a morte. Era stato l’inizio dei lunghi secoli di persecuzione della Chiesa in Inghilterra, Scozia e Irlanda. Tolkien aveva seguito con commozione la canonizzazione, che era avvenuta insieme a quella di un caro amico di Moro, il vescovo John Fisher, l’unico vescovo che non aveva apostatizzato cedendo alle lusinghe del re, che aveva garantito il mantenimento dei loro privilegi a quei vescovi che avessero tradito la Chiesa e fossero diventati anglicani. Cedettero tutti, tranne John Fisher il vescovo di una piccola diocesi, Rochester.

La canonizzazione aveva rievocato in Tolkien e nei cattolici inglesi le memorie del martirio, della persecuzione, ma anche del tradimento e dell’apostasia. Sono temi che emergono nel Signore degli Anelli: accanto all’eroismo e allo spirito di sacrificio degli Hobbit c’è anche il terribile voltare le spalle alla verità di Saruman. Il Bianco era il capo, il vertice di un ordine di tipo religioso messo sulla Terra di Mezzo da Iluvatar per guidare con saggezza uomini, elfi, nani. Saruman aveva scelto di tradire questo suo compito, questo suo mandato, per venire a compromessi con Sauron, con quello che intravedeva come padrone del mondo. 

Tolkien conosceva bene la storia e il pensiero di Moro: tra gli scaffali della sua libreria c’erano The Last Four Things, una profonda meditazione teologica sui novissimi, ciè le realtà ultime in cui crede la Chiesa, e soprattutto Utopia, il capolavoro del grande giurista, scritto quando egli era uno degli umanisti più in vista d’Europa, consigliere del re d’Inghilterra Enrico VIII, brillante avvocato e raffinato intellettuale. Nel 1516 pubblicò una storia fantastica, in cui descrive un’isola immaginaria, una società ideale. Moro derivò il termine dal greco antico con un gioco di parole fra ou-topos (cioè non-luogo) ed eu-topos (luogo felice); utopia è quindi, letteralmente un «luogo felice inesistente».

Il grande umanista dipinse un opposto idealizzato della società a lui contemporanea, che egli sottopose a una satira sottile. La parola utopia da allora entrò nel lessico comune con il significato di sogno, progetto, immaginazione proiettata nel futuro. Eppure Moro era tutt’altro che un sognatore, un uomo in fuga dalla realtà. Era un uomo estremamente concreto, abituato ad affrontare l’esistenza propria e degli altri, le persone della sua famiglia, coloro i cui casi giudiziari gli erano affidati e che per lui erano sempre prima di tutto persone, e non appunto «casi». Un uomo che si prendeva cura della vita pubblica, della politica, del bene comune dei suoi concittadini inglesi. Un uomo caratterizzato da una profonda, intensa fede, che anni dopo lo avrebbe portato al patibolo, vittima di quel re che aveva fedelmente servito ma che non seguì nella sua rottura con Roma, con la Chiesa universale. (…)

Se tuttavia è vero che la parola utopia è molto usata nell’ambito politico e culturale, presenta anche alcuni aspetti religiosi molto importanti. Un’utopia (il cui significato è letteralmente non luogo, un luogo che non c’è) è un assetto politico, sociale, nonché religioso che non trova riscontro nella realtà, ma che viene proposto come ideale e come modello. Indica una meta intesa come puramente ideale e non effettivamente raggiungibile; in questa accezione può avere sia il connotato di punto di riferimento sul quale orientare azioni praticabili, sia quello di mera illusione e di ideale irraggiungibile. (…)

Tutti noi portiamo dentro la speranza tante volte accarezzata e tante volte delusa che certamente chissà dove, chissà quando, possa esistere una terra di pace e di abbondanza, di bellezza e di giustizia, dove noi, da quelle povere creature che siamo, potremmo essere felici. Non una Utopia, quindi, ma una Eutopia: una utopia buona. 

Tutte le forme di utopie sono come rami di uno stesso albero, come emissari di uno stesso lago. Esse hanno in comune la matrice mitica, ovvero la nostalgia di un’età dell’oro, di un Eden che l’uomo ha perduto; anche quando la narrazione è proiettata nel futuro, attraverso il filtro dello sviluppo tecnologico, al fondo della prospettiva c’è l’utopia, il sogno di una società perfetta, ancor più forte e presente nella descrizione drammatica delle distopie, le società che sono l’esatto contrario di ciò che dovremmo desiderare”.

Paolo Gulisano

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