Primavera 1914: nubi di guerra si profilano all’orizzonte di un’Europa che fino a quel momento viveva la sua Belle Epoque, una sorta di prolungato ballo sul Titanic. In uno dei paesi che saranno protagonisti dell’apocalisse bellica che si sarebbe scatenata di lì a poche settimane, l’Inghilterra, la prima metà del 1914 era stata caratterizzata da un fenomeno impressionante: tutte le principali Trade Union ( i sindacati) ebbero un aumento vertiginoso, passando da 2 a circa 4 milioni di iscritti. Nel paese che aveva conosciuto il secolo precedente la rivoluzione industriale, con costi umani impressionanti, con le principali città britanniche, da Londra a Birrmingham, da Manchester a Liverpool, alla scozzese Glasgow, segnate da enormi slums, ghetti degradati dove milioni di persone vivevano in condizioni sanitarie e sociali da terzo mondo.
Agli inizi del ‘900 proprio negli ambienti sindacali che con grande fatica cercavano di strappare migliori condizioni per chi lavorava in condizioni che il pensatore cattolico Hilaire Belloc aveva definito come stato servile, si era deciso di dare vita a un partito che tutelasse le classi meno abbienti. Uno scozzese delle Highlands, James Ramsay MacDonald, fu eletto segretario. Nelle elezioni del 1906 il Labour Commitee ottenne la nomina di 30 deputati, un risultato notevole tenendo conto che solo il 60 % della popolazione maschile adulta della Gran Bretagna aveva accesso al suffragio, e la parte più povera della popolazione (quindi molti potenziali elettori dei laburisti) non potevano esprimere la loro preferenza. Subito dopo il successo elettorale sorse il Labour Party (Partito laburista) vero e proprio. Nel 1914, dunque, in una società caratterizzata da evidenti discrepanze tra la working class e la classe dominante, si profilava una crescita impetuosa dei sindacati e dello stesso partito laburista. Un fenomeno simile a quello che stava avvenendo in Italia, con lo sviluppo della presenza dei cattolici in politica, dopo un cinquantennio di avvilente discriminazione da parte della classe dirigente massonica che era stata protagonista della rivoluzione risorgimentale, e allo stesso tempo con la crescita del Partito Socialista. Un eventuale incontro ed alleanza tra cattolici e socialisti avrebbe sicuramente avuto presto la meglio sui liberali. Così in Inghilterra l’ascesa del Labour sembrava inesorabile. Ma in soccorso delle vecchie oligarchie giunse nell’estate la guerra.
Così il movimento operaio inglese si trovò a fronteggiare l’insormontabile ostacolo del patriottismo. Nell’agosto il Partito laburista accettò di entrare a far parte del governo di coalizione creato per far fronte all’emergenza derivante dallo scoppio della guerra mondiale. A differenza di quanto accadde in Italia, dove i socialisti si erano opposti al conflitto e anche dopo il 1918 avrebbero mantenuto viva la loro polemica contro gli interventisti, il partito laburista non assunse alcuna posizione che potesse apparire come antinazionale. Sotto questo profilo, il nuovo partito operaio britannico sembra molto più simile ai partiti socialisti di Germania e Francia, che però erano marxisti e aderivano alla Seconda Internazionale. Il 24 agosto 1914, venne dichiarata una tregua industriale, sulla base di una mozione votata sia dal partito sia dai principali sindacati. In tale testo, si auspicava «che fosse fatto uno sforzo immediato per por fine a tutte le controversie di lavoro esistenti e che, qualunque nuova difficoltà potesse sorgere durante la guerra, si facesse un serio tentativo da parte di tutti gli interessati per raggiungere un accordo amichevole prima di arrivare a uno sciopero o una serrata». Era scoppiata la pace sociale, imposta dall’imperativo patriottico.
Durante gli anni della guerra, dapprima l’industria degli armamenti, poi gran parte dell’economia britannica furono sottoposte a un controllo statale sempre più rigoroso, all’insegna di un patto stipulato tra governo e organizzazioni sindacali. Il primo, da parte sua, si impegnò a garantire agli operai alti salari e buone condizioni di lavoro; in cambio, però, il diritto di sciopero e di protesta erano di fatto soppressi.
Come fu possibile che un movimento sindacale e politico già ben organizzato e in piena crescita di consensi si consegnasse senza discussione alla retorica bellicista e nazionalista? Resta un mistero. Certamente, la capacità della propaganda – con i mezzi di allora – fu notevole. Fu capace di far dimenticare che il sovrano che si trovava a Buckingham Palace, il nipote della regina Vittoria, aveva nelle vene sangue in gran parte tedesco (era cugino dell’odiatissimo Kaiser) e fece dimenticare tutte le giustissime istanze di cambiamento sociale. Fu una sorta di ubriacatura collettiva, di auto-suggestione di massa che fece precipitare tutta la gioventù britannica ad arruolarsi e a partire per le trincee della Francia e del Belgio. In questa operazione un ruolo chiave lo ebbero, naturalmente, gli organi di informazione, e gli intellettuali. Così come l’Italia del maggio 1915 vide uno scrittore, Gabriele D’Annunzio, infiammare con la sua parola le piazze della Penisola, così l’Inghilterra del 1914 vide degli intellettuali lanciarsi con la penna nel furore bellico. Tra questi ci fu Rudyard Kipling, conosciuto principalmente per i suoi romanzi d’avventura, tra cui il famosissimo Il libro della giungla. Kipling, che nel 1907 era stato insignito del Nobel per la letteratura, già da anni era il cantore delle glorie dell’Impero Britannico, dalle Indie all’Irlanda. Aveva dedicato una poesia, Ulster, ai fanatici lealisti di quella provincia irlandese. Aveva parlato del cosiddetto fardello dell’uomo bianco, il compito, il destino delle razze superiori dell’Occidente bianco, anglosassone e protestante di dominare il mondo.
Fin dal 1914 e per tutto il conflitto Kipling svolse il ruolo di corrispondente di guerra, sul fronte occidentale prima e su quello italiano poi. E’ ipotizzabile che il suo ruolo sul fronte italiano non fosse quello di semplice corrispondente, ma di agente di collegamento. Un uomo dei servizi segreti inglesi posto in un fronte cruciale come quello italiano proprio alla vigilia di Caporetto, una sconfitta che sconvolse completamente l’alto comando italiano e ne portò ai vertici uomini spregiudicati, uomini “nuovi”, come il generale Capello, il fondatore degli Arditi, i crudeli “commandos” che avrebbero costituito, dopo la guerra, la spina dorsale del nascente Fascismo. Massoni come Capello erano certamente graditi a chi voleva un’Italia più “virile”, bellicosa, e naturalmente meno cattolica.
Kipling dal fronte orientale italiano si sperticava nei suoi reportage nelle lodi al Re, al generale Cadorna e alla perfetta organizzazione de «la più antica e la più giovane delle nazioni». La sua esaltazione di quella che il Papa aveva definito inutile strage non si placò nemmeno alla notizia del figlio, caduto sul fronte belga. Centinaia di migliaia di Mowgli erano stati mandati a morire nelle trincee della Somme, tra i gas asfissianti e assalti suicidi nella terra di nessuno. Dalle fabbriche delle Midlands alle aule di Oxford, un’intera generazione sarebbe stata mandata orrendamente al massacro per un assurda gloria nazionale, o forse – e con maggiore credibilità – per calcoli di potere.
Paolo Gulisano
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