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Tornare allo spirito di Don Camillo

Quello del prete sta diventando un mestiere molto difficile. Tanto più se sei un prete serio, che circola con la tonaca, o quanto meno il clergyman, e non travestito da geometra come sempre più spesso accade. Amici sacerdoti di questo tipo mi dicono di essere guardati di traverso, in tram o per strada. La gente li guarda come se fossero tutti potenziali pedofili. Questa è la situazione causata dalle pecore nere del clero come Mc Carrick, Wuerl e soci, e dai loro autorevoli garanti, e ne fanno le spese tanti sacerdoti per bene.

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Don Camillo è ritornato. Ma è quello vero?

Giovanni GuareschiÉ tornato don Camillo. Nel modo in cui meno ce lo si poteva aspettare. Lo ha proposto come modello di prete nientemeno che papa Francesco, al Convegno della Chiesa italiana. Proprio lui, il pretone della Bassa uscito dalla penna talentuosa di Giovannino Guareschi, lo scrittore italiano più letto e tradotto nel mondo, ma allo stesso tempo il più censurato in patria, dileggiato come reazionario. Con una periodicità pressoché stagionale, le televisioni ripropongono da anni i film del ciclo di Don Camillo, liberamente, forse anche troppo, ispirati ai racconti di Giovannino Guareschi.

Il favore presso il pubblico o, se si preferisce, l’audience, è sempre di grado elevato, e ciò ha consentito da una parte il perpetuarsi della popolarità delle “maschere” di don Camillo e Peppone a più generazioni, ma non sempre ha reso pienamente merito al loro creatore, dato che la trasposizione cinematografica ha in gran parte tradito lo spirito originario dei racconti, tanto da suscitare a suo tempo le proteste dello stesso Guareschi nei confronti  dei registi e degli sceneggiatori, stemperando spesso in un tiepido irenismo quello che era un confronto onesto, leale, ma anche duro e serrato tra le ragioni del cristianesimo e quelle dell’ideologia, che avvelenava (e avvelena) i cuori e le menti.

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LETTURE/ Che cosa unisce Blair, Renzi, Peppone e Padre Brown

Quel cristiano di GuareschiI paragoni tra Matteo Renzi e Tony Blair in questi giorni si stanno sprecando. Quante similitudini tra il sindaco di Firenze (non a caso la città italiana più amata oltre Manica) e il Premier che fondò il New Labour. Similitudini più di immagine che di sostanza, peraltro. Due leaders arrivati giovani al vertice politico dei rispettivi paesi, progressisti ma non massimalisti, dinamici, pragmatici. Tutto vero, ma un giudizio più approfondito può venire dal confronto fra i retro terra culturali dei due, e magari anche religiosi.

Di Blair è noto il cammino spirituale che lo portò, dopo lunga riflessione, a convertirsi al Cattolicesimo, una volta lasciato il numero 10 di Downing Street. L’avesse fatto mentre era in carica, l’avvenimento avrebbe suscitato un notevole scalpore, e anche una situazione imbarazzante per la Gran Bretagna, le cui leggi ancora oggi, a secoli di distanza dallo strappo di Enrico VIII e dalle leggi persecutorie di Elisabetta I, proibiscono che un cattolico possa essere Primo Ministro. In tempi di trionfo del Politically correct, un anacronismo assurdo, discriminatorio e spaventoso.

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