“Arancia meccanica”, un classico da riscoprire

L’Inghilterra ci ha regalato nello scorso secolo numerosi grandi scrittori; in tempo di Brexit è buona cosa ricordarlo. Un aspetto sicuramente notevole è che molti di questi autori erano cattolici profondamente convinti: Chesterton, Belloc, Tolkien, lo scozzese Marshall, Benson, Waugh, Knox e altri ancora. In questo gruppo di scrittori cattolici di Albione si può annoverare anche una figura decisamente intrigante, quella di Anthony Burgess, nome d’arte di John Burgess Wilson. Il suo nome resta principalmente legato a quello della sua opera più famosa, ovvero il romanzo Arancia meccanica, in originale A Clockwork Orange, letteralmente “Un’arancia a orologeria”, scritto nel 1962, da cui fu tratto nel 1971 l’omonimo e celeberrimo film di Stanley Kubrick. Un film che fece epoca, che fece discutere anche per la rappresentazione cruda della violenza, magari trascurando il fatto che il nucleo centrale del libro di Burgess consiste nel fatto che è impossibile che l’uomo sia buono o virtuoso solo perché lo ordina lo Stato.

Il romanzo di Burgess è ambientato in Inghilterra in un futuro prossimo rispetto al 1962 in cui viene scritto, un’epoca di ottimismo, il tempo del grande boom economico, di trasgressione beat, ma anche di massicci interventi statali in vari campi della vita britannica. Burgess affronta quindi il problema del male, non quello dei grandi sistemi ideologici, dei totalitarismi, dei “mostri” come Hitler o Stalin, ma il male stupido, banale, gratuito, quello perpetrato ad esempio dalle bande di giovani teppisti annoiati.

Un tema che fu sempre caro a Burgess, che ne aveva fatto le spese direttamente, quando durante la guerra, nel 1942, in una Londra squassata dai bombardamenti nazisti, tre soldati americani ubriachi si resero protagonisti di un crudele e inconsulto atto di violenza ai danni di sua moglie. Come disse in seguito a proposito del suo libro, “ritrarre la violenza doveva essere un atto catartico e caritatevole insieme”. Un perdono difficile, quello da dare a persone che lo avevano ferito negli affetti più cari, ma non impossibile per un uomo di fede come lui.

Burgess apparteneva al novero ristretto, ma significativo, dei fedeli inglesi della Chiesa cattolica, che tanto efficacemente è stato presente come si diceva nella cultura britannica. Era nato a Manchester in una famiglia già cattolica: non era dunque un convertito, con quell’empito e quell’entusiasmo che spesso hanno i neofiti della fede. Era radicato nella storia tragica della Chiesa in Inghilterra, una storia di persecuzione, di martirio, di catacombe, di sofferenza sotto il peso di uno Stato-Leviatano che perseguì a lungo l’annientamento del cattolicesimo.

Così, in Arancia meccanica, come in molti altri suoi romanzi, il tema centrale è l’uomo minacciato dalla violenza, individuale e collettiva, vittima di condizionamenti ideologici che ne limitano la libertà, oppresso dalla macchina dello Stato. A proposito del libro che gli diede la fama scrisse: “Se Arancia meccanica, così come “1984”, rientra nel novero dei salutari moniti letterari − o cinematografici − contro l’indifferenza, la sensibilità morbosa e l’eccessiva fiducia nello Stato, allora quest’opera avrà qualche valore”.

Ciò che Burgess definiva, con un certo understatement, “salutare monito letterario”, era in realtà parte di una lunga tradizione letteraria britannica, che va da Tommaso Moro a Johnatan Swift fino a Huxley e Orwell: una tradizione di narrativa utopica, ma allo stesso tempo di critica politica, e spesso di interpretazione acuta della realtà, quando non addirittura del futuro. È proprio questo il caso di Burgess, che immagina lo scenario inquietante dove il degrado urbano dilaga, le famiglie si rinchiudono in casa davanti alla televisione, uno Stato di polizia interviene solo attraverso la repressione, la classe politica è corrotta e opportunista. Uno Stato che vuole imporre per legge comportamenti “civili”, magari, come nel caso del teppistello Alex, attraverso strumenti di condizionamento, che sessant’anni fa venivano chiamati “lavaggio del cervello” e che oggi si avvalgono di altri mezzi.

Il succo di Clockwork Orange – un’espressione tratta dallo slang giovanile del tempo, usato come immagine figurata dello squilibrio mentale, “sei fuori come un’arancia a orologeria” – era che l’uomo deve essere libero per scegliere tra il bene e il male, alla luce di una visione del mondo e della storia, visti secondo una prospettiva teologica.

Per Burgess la storia umana prevede una sorta di ciclico ripetersi di fasi, riassumibili come agostiniana e pelagiana. La fase agostiniana è pessimista, fortemente consapevole della presenza del male nel mondo, coerentemente al pensiero di Sant’Agostino, e si traduce in termini politici nel conservatorismo. Il pelagianesimo, invece, era un’eresia prodotta da un monaco di origine britannica (combattuta fortemente dallo stesso Agostino) che sostanzialmente negava il peccato originale e le sue conseguenze, ritenendo di conseguenza che non fosse necessaria la Grazia come aiuto divino all’uomo, ma bastasse uno sforzo moralistico di miglioramento.

Nel pelagianesimo, il ruolo di Gesù è quello di presentare un buon esempio da seguire. Per Burgess la fase pelagiana va dal liberalismo al socialismo, segnati da ottimismo riguardo le sorti umane, che si traduce in progressismo politico, almeno fino a quando non deve fare i conti con la realtà. Allora la maschera ottimista e buonista cade e lascia intravvedere un volto arcigno, spietato, totalitario.

Arancia meccanica è dunque un romanzo ancora oggi da leggere, non soltanto una testimonianza del clima culturale degli Anni ’60, che precedette e favorì la rivoluzione di costume del ’68, ma un romanzo in cui si esplora la natura del male, un tema classico e continuamente attuale. Un libro tutto da riscoprire.

Paolo Gulisano

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