Leggendo Shakespeare

Il compito che Gilbert Keith Chesterton, il grande saggista, romanziere e apologeta inglese che tutti ben conosciamo, si assunse nel corso della sua vita, fu in primo luogo quello di testimoniare, nel bel mezzo di una cultura liberale, tecnica e razionale che vuole appiattire tutti i misteri, la pienezza che Cristo affida alla sua Chiesa: «Avverto la difficoltà nel riconoscere il diritto dei cristiani più liberali e dalla mente aperta di scorgere nient’altro che bene in tutte le religioni e nient’altro che male nella mia» disse. Chesterton ebbe ben chiaro che il cristiano è chiamato a difendere questa pienezza calandosi nell’arena delle opinioni, provocando gli animi a una ricerca della verità: era quello che faceva quotidianamente nel suo lavoro di giornalista.

Chesterton, nato negli ultimi anni dell’Era Vittoriana e vissuto a cavallo tra due secoli, ha la consapevolezza di vivere in un tempo molto particolare, di tramonto di una civiltà, un tempo di transizione verso qualcosa di nuovo: «Il capitalismo sta andando a pezzi» . Chesterton ha la coscienza di star vivendo alla fine di una fase della modernità. Sta finendo la società capitalista, e assieme a essa si sta consumando il fondamento su cui si è costruita: la modernità basata sul concetto di uomo ridotto a individuo chiuso in sé stesso, senza relazione con il prossimo e con Dio. «E desideriamo sinceramente che si valuti con serietà se non sia possibile realizzare la transizione illuminati dalla ragione e dalla tradizione» .

Chesterton avverte questa consapevolezza di un tempo di transizione da alcuni chiari segnali, che in qualche modo rompono la solitudine e la chiusura dell’io per aprirlo all’Altro. Innanzitutto, la nascita del comunismo. Pur non condividendo la visione di uomo e la risposta economica offerta dal comunismo, Chesterton vede comunque in esso una reazione alle ingiustizie arrecate dal capitalismo individualista: «Mia cognata aveva per i comunisti una profonda simpatia, come me, e li seguiva su strade in cui non posso addentrarmi. Ma soprattutto si batteva per la privacy dei poveri, a cui nessuna privacy è stata mai concessa. Lottava soprattutto, come me, per la proprietà privata di coloro che non ne hanno» , scrisse nella sua Autobiografia, facendo riferimento ad Ada Jones, la moglie di suo fratello, che fu una valente giornalista politica. Chesterton scorge nel comunismo il tentativo di dare un’etica a un’economia appiattita sulle eccessive pretese dell’uomo concepito come individuo assoluto. In breve tempo GKC si era affermato come uno dei più noti e interessanti giornalisti d’Inghilterra, collaborando con diverse testate, dal Daily Mail all’Eye Witness, fondato dal fratello, anch’egli penna brillantissima. Chesterton era passato dalla piccola editrice Redway, della quale era diventato il responsabile dell’ufficio editoriale, alla più prestigiosa Fisher Unwin. Aveva cominciato con recensioni in campo artistico e letterario. Le sue stroncature, in particolare degli impressionisti e dei decadentisti, erano spettacolari. Si salvò dai suoi strali, tra i pochi, Oscar Wilde, nel cui anticonformismo Gilbert intuiva che c’era qualcosa di più di una posa estetica, e aveva probabilmente intravisto la drammaticità dell’arte e della vita stessa del re dei dandy londinesi, che sarebbe arrivato, dopo le esperienze tragiche del processo, della prigione e della messa al bando sociale, alla conversione al cattolicesimo che gli avrebbe dato la serenità con cui affrontare gli ultimi anni di vita e la morte precoce .

Fu dunque come giornalista in cerca di verità che Gilbert si dedicò a Shakespeare, il gigante della Letteratura inglese, l’orgoglio della cultura di Albione. Una cultura che tuttavia da quattro secoli ne tace un indicibile segreto: il Bardo di Stratford era un cattolico clandestino.

Giunge quindi opportuno nelle librerie questo testo di Gilbert edito dall’Editore Rubettino, che da molti anni segue con attenzione la produzione inedita di GKC.  Questo testo ci rivela anzitutto il rapporto personale di Chesterton con Shakespeare: Gilbert apprezzava tantissimo Shakespeare e non ne faceva un uso strettamente “culturale” (egli non fu mai contaminato da questa aberrazione di tenere separate vita e lettere, pur essendo un intellettuale, perché ebbe in dono l’idea sacramentale della realtà), ma ne traeva un beneficio spirituale, come succede con tutte le “grandi opere di genio”, “perché si rivolgono certamente a tutta l’umanità, facendo risuonare quel che tutti abbiamo nel profondo e in cui tutti ci riconosciamo”. Poi ne godeva, così come succedeva per Dickens (sopra tutti gli altri), Stevenson, Browning, Chaucer e così via. L’idea che la poesia e la letteratura in senso più ampio possano estrarre dall’anima dell’uomo la sua identità e la facciano risuonare (mi piace questo verbo) è molto chestertoniana; il nostro Gilbert diceva che in certe epoche sono i poeti che ci richiamano alla nostra vera natura. Com’è che diceva Chesterton da qualche parte: “Non nego che debbano esserci i preti per rammentare agli uomini che un giorno dovranno morire. Dico soltanto che, in certe epoche strane, è necessaria un’altra specie di preti, chiamati poeti, per ricordare agli uomini che ancora non sono morti”. Chesterton da Shakespeare traeva insegnamento per la sua vita interiore e al tempo stesso si nutriva degli straordinari concetti da lui espressi, della profondità dei suoi drammi, della complessità delle psicologie dei personaggi, ma anche della creatività nell’uso del linguaggio, della straordinaria capacità di raccontare l’uomo all’uomo senza infingimenti. Nel presente volume sono raccolti proprio gli scritti in cui Chesterton spiega e interpreta meglio alcune delle opere di Shakespeare più note, in modo che siano perfettamente comprensibili a tutti, dandone letture tanto semplici quanto originali e profonde, che ci spingeranno con rinnovato gusto sulle pagine del “grande Bardo”.

Per Chesterton – che nella sua visione riprende la teologia del card. Newman, il primo grande convertito dall’anglicanesimo al cattolicesimo in epoca moderna – la Chiesa è un corpo vivo, è il nuovo Corpo di Cristo che vive nella storia. La Chiesa, come in un seme, ha già tutta la pienezza umana e divina in sé stessa: non deve cercare la pienezza fuori di sé. È già in sé: in Cristo c’è già tutta la pienezza. In un Inghilterra che ai tempi della Riforma aveva conosciuto in Inghilterra una spaventosa persecuzione, la prima di quelle che la Modernità avrebbe scatenato contro coloro che credono fermamente in Cristo, Shakespeare rappresentò un piccolo ma lucente barlume che illuminava le tenebre, e che le illumina ancora oggi. Merito di Chesterton è stato quello di ricordarcelo attraverso questi scritti.

Paolo Gulisano

www.riscossacristiana.it

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