Da Platone a San Tommaso Moro fino al pragmatismo efficientista dei nostri giorni, questa espressione si colora di significati e risvolti anche molto diversi a seconda delle epoche
La parola non appartiene strettamente al “gergo” della Chiesa, tuttavia è molto usata nell’ambito politico e culturale, e presenta alcuni aspetti religiosi molto importanti.
Un’utopia (il cui significato è letteralmente non luogo, un luogo che non c’è) è un assetto politico, sociale e religioso che non trova riscontro nella realtà, ma che viene proposto come ideale e come modello.
Indica una meta intesa come puramente ideale e non effettivamente raggiungibile; in questa accezione, può avere sia il connotato di punto di riferimento su cui orientare azioni praticabili, sia quello di mera illusione e di ideale irraggiungibile
L’utopista – sia come coniatore di utopie, sia come semplice propugnatore, sia come pensatore utopico critico – può quindi essere tanto colui che costruisce le sue ipotesi ideologiche prescindendo dalla realtà (come Lenin, che affermava che se le sue idee non coincidevano con la realtà, tanto peggio per la realtà),quanto colui che indica un percorso che ritiene al contempo auspicabile e pragmaticamente perseguibile.
Nell’uso comune, utopia e utopismo sono spesso associati a pensieri e comportamenti velleitari. Molto spesso anche il Cristianesimo viene indicato come un’”utopia”. La via mostrata da Cristo sarebbe troppo “alta”, impraticabile, e quindi utopica, così come una società fondata sui princìpi cristiani.
Eppure il termine utopia fu coniato da un santo, un martire, Tommaso Moro, che scrisse un’opera che si intitolava appunto Utopia. Prima di Moro, la prima “proiezione utopica” conosciuta risale a Omero, che nel libro VII dell’Odissea descrive il giardino utopico di Alcinoo, dove le fioriture si susseguono, senza soluzione di continuità, con il progredire delle stagioni. Esiodo (VIII-VII sec a.C.) ne Le opere e i giorni, propone il primo esempio di poema didascalico, dove dispensa consigli per una attività umana il lavoro, che conferisce dignità e pone l’uomo nel sistema ordinato della giustizia. Pindaro (518-438 a.C.) allude a una mitica isola degli uomini “felici e beati”.
Infine Platone (428-347 a.C.), nella Repubblica e nelle Leggi, discetta sulla formazione dello stato e sulla natura della giustizia. L’esempio di Platone è probabilmente il più celebre e autorevole di tutta la letteratura utopica classica, ed ha influenzato gran parte delle opere che sono seguite, di cui la più importante è quella di Tommaso Moro.
Moro peraltro riprendeva un’antica tradizione di utopie cristiane, scritte fin dal II secolo, che si erano preoccupate soprattutto di immaginare il regno ideale di Dio sulla terra, che deve essere realizzato o dalla Chiesa nella sua totalità, o da uno dei movimenti al suo interno.
Nell’era cristiana si possono riscontrare molte utopie religiose, alcune delle quali sono in stretto rapporto con lo sviluppo del monachesimo, mentre altre sono manifestazione di una delle possibile forme del millenarismo.
I testi più significativi di questa tradizione medievale nacquero dal lungo conflitto tra Chiesa e Impero e da quello parallelo, che contrappone il Cristianesimo all’Islam, per la riconquista di Gerusalemme. I più importanti sono: De civitate Dei, di Agostino (354-430), una sistemazione della cultura e della storia in un ottica teologica; la Monarchia di Dante Alighieri, l’opera in cui viene trattata con maggior chiarezza l’utopia politica del poeta fiorentino, ma anche la rappresentazione fantastica del viaggio compiuto da Dante nella sua Commedia, dalle invettive e la dura condanna dell’avversario politico all’ardore profetico di una pace meritata, lascia trasparire una funzione etica e salvifica di speranza.
Tommaso d’Aquino, il principale teologo e il punto di riferimento ineludibile per chi voglia pensare in modo cristiano, non aveva pregiudizi e preferenze di fronte alle tre forme classiche di governo, monarchia, aristocrazia e democrazia, a patto che non degenerassero nella tirannide, pericolo condiviso anche dalla democrazia, qualora non rispetti la giustizia.
Quasi contemporaneo all’Utopia di Moro fu il Principe di Niccolò Machiavelli, un compendio di regole di opportunità politica. In quest’opera l’utopia non interessa un luogo, ma un individuo. Ma in Machiavelli, il principe, che concentra in sé virtù e gusto e si adopera al governo dello stato con lo stesso spirito di un artista che si dedica a un opera d’arte, il criterio dell’utilità prevale sul concetto di etica. Siamo ormai lontani dalle speranze millenaristiche del Medioevo e dall’Umanesimo cristiano di san Tommaso Moro.
Siamo arrivati ad un pragmatismo efficientistico che porrà le basi per le politiche della modernità. Ma le utopie non si fermeranno lì: la modernità scientista e tecnologica è anche- paradossalmente- il tempo di nuove utopie, di sogni della ragione che spesso sono diventati incubi bioetici: il “giocare a fare Dio” dello scienziato che vuole rimodellare la creazione, che vuole dominare l’uomo e il mondo. Contro queste pericolose utopie il Cristianesimo è oggi impegnato a difendere la retta ragione e il principio di natura e di realtà.