Cinquant’anni fa l’uomo sbarcò sulla luna. Quel senso di avventura che oggi non c’è più
Notte del 20 luglio 1969. Milioni di persone rimasero sveglie per assistere in diretta televisiva a un avvenimento di portata storica: lo sbarco dell’uomo sulla Luna. Già questo fatto era qualcosa di straordinario: mai infatti nella storia era stato possibile essere testimoni diretti di un fatto. Come se la Battaglia di Waterloo o lo Sbarco in Normandia fossero stati ripresi in diretta dalle telecamere.
C’era questo brivido di poter essere testimoni dello svolgersi di un avvenimento epocale che tenne sveglio 50 anni fa tutta la notte un bambino di dieci anni. Un bambino curioso, che aveva letto tutto quello che c’era da leggere sulla missione lunare, che conosceva i dettagli tecnici del LEM, il modulo di allunaggio, e del Saturno V, il missile che aveva spinto in orbita la capsula Apollo. Un bambino che si era letta la biografia di Werner Von Braun, lo scienziato tedesco che come prezioso bottino di guerra gli americani si erano portati a casa affinché lui – che era stato l’inventore dei micidiali razzi V1 e V2, che a momenti avevano rischiato di ribaltare le sorti del conflitto – li aiutasse a diventare i dominatori dello spazio.
I quei giorni del luglio del 1969 queste e altre considerazioni politiche contavano poco. Certo, c’erano le manifestazioni contro lo “spreco” di tutti quei soldi destinati a portare tre uomini nello spazio e due sulla Luna, soldi che – alcuni dicevano – avrebbero potuto essere spesi per combattere “la fame nel terzo mondo”; c’era in molti altri il fastidio per il fatto che questa conquista avveniva sotto l’egida della bandiera a stelle e strisce. Il 1969 era l’anno successivo al fatidico ’68: la rivoluzione stava bruciando le tappe soprattutto le leggi morali. I Sovietici erano entrati con i carri armati a Praga, schiacciando il sogno di libertà, e negli acquitrini del Vietnam gli Stati Uniti stavano cominciando a comprendere che cos’era una guerra sporca e impossibile da vincere. In Italia, più meschinamente, si dibatteva di Centro-sinistra e si vivevano gli ultimi residui del Boom economico.
In quella notte del luglio 1969 l’oscurità venne solcata da un lampo, il lampo della grande storia, e tutte le piccolezze vennero superate.
“Un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità”. Queste furono le parole di Neil Armstrong, il comandante dell’Apollo 11, quando mise piede finalmente sul suolo lunare. Il bambino di dieci anni trattenne il fiato. I suoi occhi sgranati contemplarono il compiersi di una meravigliosa avventura. Un’impresa umana. Non una conquista bellica, non un atto di sopraffazione, di violazione, ma un sogno che si compiva. Come quando Cristoforo Colombo aveva toccato il suolo di un nuovo Continente, come quando i fratelli Wright avevano compiuto il primo volo col loro rudimentale velivolo.
Qualcuno potrebbe dire: ma non c’era una certa superbia in questa impresa? Certamente c’era una componente ideologica – enfatizzata più tardi – che esaltava la conquista di nuove frontiere, in un’ottica positivista e scientista, che vuole sfidare le leggi della natura e di Dio, che con la tecnica decide prometeicamente di scalare i cieli.
Ma c’era anche altro, quella notte di luglio. C’era lo spirito umano dell’avventura, uno spirito di ricerca che vi è stato riversato da Dio. L’avventura è nel cuore dell’uomo, è un desiderio, un bisogno di viaggiare, di cercare, di andare oltre, per poi tornare e raccontare ad altri l’accaduto. L’avventura è all’origine della narrativa: le storie più antiche e diffuse nel mondo, a partire dai miti e dall’epica antica, sono storie di avventura. Si può leggere una analogia culturale universale nella esposizione delle storie eroico mitologiche a partire dalla “chiamata all’avventura”, a cui segue un viaggio pericoloso, per giungere al trionfo finale, o alla catastrofe.
Il bambino di dieci anni aveva letto che un cosmonauta russo aveva affermato di non aver trovato nello spazio esterno la presenza di Dio. Quel bambino invece in Dio ci credeva fermamente, ed era convinto che le imprese spaziali avrebbero finito per rivelarlo. “I Cieli narrano le opere tue” è scritto. L’uomo è fatto per Dio, ed è inquieto il suo cuore finché non lo incontra.
Sono passati 50 anni. Le imprese spaziali sono finite da tempo. Non siamo ancora stati su Marte – che 50 anni fa sembrava essere la necessaria, successiva e immediata tappa, inviamo sonde in giro per il Sistema Solare – ma abbiamo smesso di viaggiare. Ci si è ripiegati su se stessi: si naviga lungo i canali dell’informazione, sulla Rete, nell’etere.
Eppure, sarebbe bello, in una notte scura, alzare gli occhi verso le stelle, e sognare di raggiungere pianeti lontani, di vedere altri mondi, di scoprire nuove realtà, di incontrare Dio, oltre le ultime frontiere.
Paolo Gulisano