La Giornata Mondiale del malato: quanti ammalati di Covid hanno vissuto la malattia in solitudine? Tante piccole tragedie quotidiane nello scenario del grande reset sanitario dove si è persa la centralità del malato e dove l’enfasi è stata posta sulla malattia. Un calvario reso più dolente dalla lontananza della Chiesa dai luoghi di cura. Per rendere più umana l’assistenza sanitaria invece bisogna rifarsi a una visione trascendente dell’uomo.
Trent’anni fa Giovanni Paolo II istituiva la Giornata Mondiale del malato. Una peculiare occasione per riflettere di fronte al grande mistero del dolore e della malattia, un mistero di fronte al quale il Cristianesimo è tutt’altro che sprovvisto di risposte, di fronte al quale non è mai stato smarrito o confuso. La Chiesa ha sempre rivolto una particolare attenzione agli ammalati e al mondo della sofferenza nelle sue molteplici manifestazioni, compreso il dolore innocente. Non è un caso che la Giornata del Malato venga celebrata nel giorno in cui si fa memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes.
È in Maria che si avverte il richiamo a riconoscere nel volto del fratello infermo il Santo Volto di Cristo che, soffrendo, morendo e risorgendo ha operato la salvezza dell’umanità. Le domande di fondo poste dalla realtà della sofferenza, infatti, e l’appello a recare sollievo sia dal punto di vista fisico che spirituale a chi è malato non riguardano soltanto i credenti, ma interpellano l’umanità intera, segnata dai limiti della condizione mortale.
Questa trentesima Giornata Mondiale cade in circostanze drammatiche: quante persone ammalate di Covid – con le loro famiglie – hanno vissuto la malattia in condizione di solitudine, hanno provato una sensazione di abbandono mentre si aggrappavano alla ricerca telefonica di un aiuto che non sarebbe venuto. Quanti malati di tumore o di malattie cronico-degenerative gravi hanno visto allontanarsi le date di visite ed esami di controllo perché dovevano cedere il passo alla”emergenza Covid”.
Tante piccole tragedie quotidiane, nello scenario del grande reset sanitario dove si è persa la centralità del malato, e dove l’enfasi è stata posta tutta sulla malattia, sui numeri, sulle statistiche, sul numero dei casi, e su una visione collettivistica della salute per cui i diritti del malato venivano dopo le esigenze e i dettami della “Salute pubblica”. C’è uno sconosciuto calvario di patimenti spesso ignorati, non sempre idoneamente alleviati, e talora persino aggravati per la carenza di un adeguato sostegno di cui un giorno occorrerà scrivere la storia.
Questo calvario è stato reso ancora più dolente dalla lontananza della Chiesa dai luoghi della sofferenza e della cura. Una scelta fatta dagli organismi tecnici governativi, ma che è stata avallata e condivisa dalla gerarchia ecclesiastica. Anche in occasione di questa Giornata Mondiale, la Conferenza Episcopale Italiana non ha saputo far di meglio che pubblicare una Lettera ai curanti dove non si fa che riprendere la narrazione ufficiale degli ospedali come trincee dove hanno combattuto valorosamente i soldati sanitari. Con una valutazione decisamente irenistica di quanto è accaduto: «Di fronte alla pandemia abbiamo riscoperto l’amore e l’attaccamento alla vita. Non solo quella biologica, ma quella fatta di relazioni, di vicinanza, di attenzione a tutti, di sofferenze e preoccupazioni condivise». Così scrivono i vescovi, nel trasporto del loro wishful thinking. Magari fosse così.
E tutta la paura, il terrore, la frustrazione, l’angoscia, l’inquietudine, i mali fisici e psichici che hanno dominato la vita delle persone per due anni?
La Chiesa, dicevamo, decise due anni fa di fare un passo indietro rispetto al mistero della malattia, della sofferenza e della morte, lasciando che se ne occupassero i “tecnici”, gli esperti sanitari. E così oggi non stupisce che anche ai vertici della Chiesa non si sappia rispondere al mistero del dolore che accompagna la nostra condizione mortale.
Quale giustificazione trovare non solo per il dolore dei bambini, ma anche per il declino della vecchiaia e per il traguardo finale della morte che, malgrado ogni progresso scientifico e tecnologico, continuano a sussistere inesorabilmente? La Chiesa ha da secoli la risposta a tutto ciò: è in Cristo, Verbo incarnato, redentore dell’uomo e vincitore della morte, che è possibile trovare la risposta a tali fondamentali interrogativi.
Alla luce della morte e risurrezione di Cristo la malattia non appare più come evento esclusivamente negativo: essa è vista piuttosto come una «visita di Dio», come un’occasione «per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella civiltà dell’amore» come scriveva Giovanni Paolo II nella Salvifici Doloris.
La storia della Chiesa e della spiritualità cristiana offrono di ciò amplissima testimonianza. Lungo i secoli sono state scritte pagine splendide di eroismo nella sofferenza accettata ed offerta in unione con Cristo. E pagine non meno stupende sono state tracciate mediante l’umile servizio verso i poveri e i malati, nelle cui carni martoriate è stata riconosciuta la presenza di Cristo povero e crocifisso. Le attese oggi molto vive di una umanizzazione della medicina e dell’assistenza sanitaria richiedono una più decisa risposta.
Paolo Gulisano
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