Abito in una casa di collina e userò la macchina tre volte al mese. E, sempre come Battiato in Giubbe Rosse, con duemila lire di benzina scendo giù in paese, attento a evitare le lucertole che attraversano la strada. Poi, lungo il crinale del mio Monte Canto, più discreto di quello dell’Etna, mi fermo in prossimità dei boschi e ne ascolto la voce: che è anche voce umana, voce del lavoro di chi porta ordine là dove la natura continua ad averne bisogno. A sentirlo appena un poco da lontano, il mormorare dei piccoli motori a scoppio, delle accette, dei segnali e degli ordini in dialetto laconico e gutturale prende una cadenza, quasi una melodia, capace di consolare quanto lo scampanìo che viene dall’altra parte della valle dell’Adda. È la voce di qualcosa di buono che permane nonostante tutto.
Non so se quelli che lavorano nei boschi siano necessariamente uomini buoni. Anzi, so che ve ne sono sempre meno e che la gran parte di loro ha sostituito la bontà di campagna con la venerazione per il pickup nuovo fiammante al cui specchietto hanno appeso la regolamentare mascherina ffp2 al posto del rosario. Matteo Donadoni, anche lui uomo di campagna con vista sul Monte Canto, lo dice con lucidità ineccepibile nell’articolo che segue.
Ma tra chi passa le giornate a tagliare alberi e raschiare il fogliame, c’è ancora qualche fossile di un’altra era metafisica che continua a essere intimamente buono. Si sente dal suono speciale del suo lavoro, che sta un’ottava sotto quello degli altri, più basso, meno vistoso, eppure essenziale. Che bello, se il mondo fosse così, come queste colline governate da qualche creatura ancora permeabile alla bontà.
Nel caravanserraglio pandemico e vaccinale, modellato a propria immagine somiglianza da draghi e quaquaraquà, siamo alla ricerca di uomini coraggiosi, intelligenti, integerrimi e inflessibili che ci possano riscattare. A volte, pensiamo addirittura di essere noi quei cavalieri che condurranno il popolo alla riscossa. Ma quasi sempre dimentichiamo che, più di ogni altra cosa, per guardare veramente oltre i reticolati dei nuovi lager tecnologici e per avere una speranza di esserne liberati, abbiamo bisogno di uomini buoni. Abbiamo bisogno di persone miti, perché saranno loro che “erediteranno la terra”. Abbiamo bisogno del loro esempio, che è un continuo richiamo all’invito del loro Maestro: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”.
Penso che siano soprattutto loro, i miti, gli apostoli buoni in questi tempi tecnologici e crudeli perché, alla fine, ho intuito cosa sia la mitezza. L’ho avuta sotto gli occhi per sessant’anni e l’ho compresa solo quando mia mamma, una donna buona seppure piena di difetti, stava morendo. La persona mite è quella capace di far fruttare i suoi talenti, seppur umili e da quattro soldi, permettendo che gli altri facciano fruttificare i loro, talvolta più nobili e preziosi. Mia madre me lo ha fatto intuire quando non poteva più parlare, con quello sguardo che finalmente potevo leggere fino in fondo. Ognuno di noi vive accanto a una persona mite e il Signore non potrebbe farci dono più grande, solo che fatichiamo a riconoscerlo. Ma, quando vi riusciamo, ne caviamo la consolazione di sapere che comunque non è mai tardi.
Così ora ho la certezza che anche in questo folle e crudele frangente, soprattutto in questo folle e crudele frangente, abbiamo bisogno di uomini miti per imparare a dare la stessa quantità di attenzione ai piccoli e ai grandi, ai loro talenti nascosti o luminosi. Penso ad Amvrosij, lo staretz di Optina che ispirò a Dostoevskij la figura del monaco Zosima nei Fratelli Karamazov. Malato per gran parte della sua vita, non si è mai sottratto dall’accogliere decine di persone ogni giorno sospingendo ciascuno a contemplare la visione più luminosa del proprio Cielo.
Nelle cronache del monastero si narra della contadina che si era presentata a lui con il timore di essere cacciata dalla sua padrona perché non sapeva allevare i tacchini. Tutti smaniavano al cospetto di quella creatura importuna, “ma Amvrosij si mise a interrogarla con pazienza su come allevava i tacchini e poi le diede dei consigli pratici; la benedisse e la congedò con il suo incoraggiante sorriso. Si seppe dopo che i tacchini non si ammalavano più. E ai presenti timorosi che il padre perdesse tempo in casi simili, lui spiegò: ‘Che volete… tutta la sua vita è legata a quella dei tacchini…’”. Non disse semplicemente “la sua vita”, come avrebbe fatto un qualsiasi uomo comprensivo, ma “tutta la sua vita”, come poteva dire solamente un uomo buono, consapevole che un pulcino può chiamare Cielo solo la volta dell’uovo in cui sta al riparo.
Amvrosij di Optina, che al secolo si chiamava Aleksandr Michailovič Grenkov, prese il nome da monaco in onore di Sant’Ambrogio, il vescovo di Milano veneratissimo in Russia. Oltre alla fermezza nella fede e nella dottrina, evidentemente, ne aveva ereditato la mitezza e la finezza spirituale capaci di convertire il manicheo Agostino, che racconta nelle Confessioni: “Io mi affezionai a lui, ma, in un primo momento, non in quanto maestro di verità, perché nella tua Chiesa disperavo di trovarla, bensì semplicemente perché benevolo verso di me. Andavo ad ascoltarlo con assiduità mentre conversava in pubblico. Ma non con l’intenzione con cui avrei dovuto: vi andavo come per rendermi conto se la sua eloquenza era all’altezza della fama di cui godeva, o se non era ancora maggiore o forse meno; pendevo dalle sue labbra, non interessato dalle cose che diceva, che anzi disprezzavo, ma affascinato dalla dolcezza del suo modo di parlare”.
L’attrazione di Agostino per la bontà del vescovo Ambrogio è segno, vorrei dire quasi sacramento, che la mitezza non confina in nessun punto del suo perimetro con l’arrendevolezza. Quando il mite si trova al cospetto di qualcuno, e persino di qualcosa, senza fede, prova dolore. E agisce in maniera oggettiva, nitida, precisa secondo il proprio cuore, nel quale c’è più amore per la verità di quanto ve ne sia in chi ostenta una natura logica e razionale. Il mite sorride senza essere ironico e corrosivo, asserisce senza essere scolastico e deduttivo, resiste senza essere violento e orgoglioso, ricorda senza essere pedante e obsoleto, ascolta senza essere curioso o sospettoso, parla senza essere visionario e profetico. Il mite non teme di morire: sa che il Figlio di Dio non si è incarnato, morto e risorto semplicemente per saldare un debito davanti a un tribunale, ma per vincere una volta per sempre l’eredità del peccato d’origine, la morte. Per questo il mite è il vero apostolo di tutti i tempi, e segnatamente di quelli in cui il timore di morire diventa strumento di controllo e di oppressione.
Se cerco un esempio luminoso tra gli uomini miti della nostra epoca, penso soprattutto a Solženicyn e alla definizione che ne diede Cristina Campo: “Solženicyn oggi è qualcosa che ti fa piegare le ginocchia. L’espressione non è mia, ma è lui ‘l’apostolo del domani’, lui così antico e immemoriale, quasi un animale preistorico. (…) nell’universale frenesia di tutte queste scimmie impazzite con elettrodi nel cervello, possedute da ossessioni, terrori e immagini che farebbero chinare gli occhi per la vergogna a qualsiasi animale, appare Solženicyn. E quel volto, mortalmente serio, immensamente casto, totalmente appassionato, e soprattutto libero dalla paura contemporanea di mostrarsi così…, di colpo fa dire: un uomo!”.
E penso a Ju81, il detenuto che Solženicyn tratteggia in una pagina della Giornata di Ivan Denisovic. Tutti hanno nome e patronimico in quel racconto, tranne lui. Ma Ju81 ha la dignità della mitezza: “Fra tutte le schiene curve i distingueva per il portamento eretto, e adesso che era seduto pareva che al suo sgabello ci fosse stato un rialzo. Sulla sua testa nuda non c’era più niente da radere: i capelli gli erano caduti tutti per quella bella vita. I suoi occhi non correvano qua e là per la mensa, ma fissavano qualcosa di invisibile sopra la testa di Šuchov. Mangiava calmo la sua brodaglia acquosa col cucchiaio di legno, intaccato, e non chinava la testa nella scodella, come tutti, ma la teneva alta, portandosi il cucchiaio alla bocca. Di denti non ne aveva più nemmeno uno, né sopra né sotto. Erano le gengive indurite che, in mancanza dei denti, gli masticavano il pane. Aveva una faccia estenuata, ma non tale da farlo sembrare un invalido ridotto a un cencio, bensì da dare l’impressione di essere scolpita in pietra dura. Le sue grosse mani screpolate e nerastre dicevano chiaro che raramente, in tutti quegli anni, si era fatto dispensare dal lavoro. E si vedeva anche che si ostinava a rimanere sempre quello di una volta: il suo pezzo di pane di tre etti non l’aveva messo, come tutti gli altri, sul tavolo sporco di schizzi di brodaglia, ma su una pezza di tela pulita”.
Estraneo al mondo e alla logica del suo Padrone e dei suoi padroni, il mite ha una visione sacramentale della realtà e trasforma ogni cosa e ogni azione in segno della presenza divina: Ju81 mette i suoi trecento grammi di pane al riparo degli schizzi di brodaglia su una pezza pulita e fa memoria dell’Eucaristia là dove pochissimi hanno tempo, voglia e forza per guardare in Cielo invece di pensare alla terra.
Eppure il mite non crede di essere migliore del proprio prossimo, è certo, anzi, di essere il solo a non meritare alcuna condiscendenza da parte di Dio. Come il ciabattino che Sant’Antonio il Grande andò a trovare quando il Signore gli disse che nella città di Alessandria viveva un cristiano migliore lui. “Non so cosa che cosa faccio di buono, abba” confessò il ciabattino. “Semplicemente, al mattino, quando mi alzo e mi metto al lavoro, mi dico che tutti gli abitanti di questa città, dal più piccolo al più grande, entreranno nel Regno a motivo delle loro opere di giustizia, io solo riceverò il castigo per i miei peccati. E di nuovo, la sera, prima di addormentarmi, mi ripeto la stessa cosa”. E abba Antonio meditò che, come un buon orafo seduto a cesellare il metallo prezioso, quell’uomo mite e umile aveva ereditato il Regno dei Cieli grazie a un discernimento che lui stesso, il padre di tutti monaci, non aveva ancora raggiunto.
Perché hanno vero discernimento, i miti, e lo applicano con inflessibilità su se stessi e con misericordia sul proprio prossimo. Penso ai buoni che popolano i romanzi di Dostoevskij, lo spirito che più di ogni altro ha sondato quali confini possa raggiungere il male e quali confini possa oltrepassare il bene. Penso alla Sonja Semënovna di Delitto e castigo, la ragazza che si prostituisce per mantenere la famiglia e accetta la condanna sociale a vivere separata dalle cosiddette persone perbene. È lei che conduce sulla via della redenzione l’omicida Raskol’nikov. È lei che lo riporta tra le volte celesti del Vangelo leggendogli il miracolo della resurrezione di Lazzaro. È lei che lo incita a gettarsi in ginocchio a un crocevia, a baciare la terra profanata dal suo delitto, a inchinarsi ai quattro punti cardinali e poi urlare a tutti “Io ho ucciso”. È lei che lo segue al campo di prigionia e lo attende fino a quando lui rinasce nella luce della Grazia.
Penso ad Alëša, il più giovane dei fratelli Karamazov, che si getta a terra nel desiderio di abbracciarla tutta insieme e la bagna con le sue lacrime. “Era come se dei fili, da tutti quegli innumerevoli mondi di Dio, venissero a convergere nell’anima sua, e questa vibrasse tutta. (…) Sentiva il bisogno di perdonare tutti di tutto, e un bisogno di chiedere perdono, oh! non per sé, ma per tutti, per tutti e per ciascuno: ché già, per me, ci saranno degli altri che lo chiederanno”. Qualcosa di solido e incrollabile, allora, cala nell’anima del giovane Karamazov e ne prende possesso per tutta l’esistenza, tutta l’eternità. “Quando era caduto a terra, era un debole fanciullo, e ora se ne levava lottatore per tutta la vita”.
Muore la debolezza e nasce l’intrepida mitezza del cuore misericordioso che soffre e non può sopportare di vedere o udire il minimo danno o il minimo dolore verificarsi nel creato. La misericordia del mite secondo il Vangelo non è quella spruzzata con eguale fetore nei cosiddetti sacri palazzi e negli studi televisivi su peloso sollecito del Bravo Presentatore. È quella che trabocca nei romanzi di Dostoevskij dai vertiginosi Discorsi di Isacco di Ninive, secondo cui un cuore misericordioso “È un cuore che arde per tutta la creazione: per gli uomini, per gli uccelli, per gli animali, per i demoni e per ogni creatura. (…) ogni momento offre con lacrime la sua preghiera anche per gli esseri irrazionali, per i nemici della verità e per quanti gli fanno del male perché siano custoditi e ottengano il perdono. Arriva a pregare anche per il genere dei rettili, nella grande misericordia che sorge senza misura nel suo cuore, a somiglianza di Dio”.
Perché il mite non è solo “l’immagine” del suo Creatore, nucleo misterioso intriso di libertà non riducibile alla sola natura umana. Diviene anche “somiglianza” dacché esercita la libertà per aderire alla Grazia e ne ottiene in riconoscimento la divinizzazione. Il mite è l’uomo che nella tremenda scelta tra l’essere o il nulla, narrata come nessun altro da Dostoevskij, ha percorso la via luminosa del bene che lo trasfigura. È l’uomo che sceglie la Grazia sapendo che l’esercizio della libertà può rendere “l’immagine” “a somiglianza” di Dio, oppure seppellirla, con tutto il mondo che la circonda, popolato di scimmie cieche e di carogne, in una tragica “dissimiglianza”.
Sono fatti con un simile impasto gli uomini buoni di cui abbiamo tanto bisogno, soprattutto oggi. Sono solidi come la protagonista di uno tra i racconti più belli di Solženicyn, La casa di Matrëna: malsagomati secondo il mondo, ma belli, di una bellezza inesprimibile, secondo Dio. Non ha nulla di attraente che sia visibile agli occhi, Matrëna: la sua parlata è una parlata da nulla, i suoi gesti sono gesti nulla, la sua stessa pratica religiosa è una pratica religiosa da nulla. La sua vita è segnata dalla spoliazione volontaria in cambio della quale riceve solo disprezzo. Prima di morire aiuta persino coloro che le stanno smontando la casa portandogliela via pezzo per pezzo. E, una volta sepolta, nessuno ha una parola cordiale in suo ricordo. Solo il professore di matematica ospite in casa sua, un forestiero, riesce alla fine a vedere la bellezza di quell’anima folle: “Non si curava delle masserizie… Non s’affannava a comperare le cose e poi custodirle più della propria vita. Non si curava dei bei vestiti. Dei vestiti che abbelliscono i mostri e i ribaldi. Non compresa e abbandonata persino dal marito, estranea alle sorelle e alle cognate, ridicola, pronta a lavorare stupidamente per gli altri senza compenso, essa, che aveva sepolto i sei figli ma non l’indole sua socievole, non aveva accumulato averi per il giorno della morte. La capra color bianco sporco, il gatto zoppo, i ficus… Le eravamo vissuti tutti accanto e non avevamo compreso che era lei il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la nostra terra”.
Sono questi giusti, questi miti, gli uomini di cui abbiamo bisogno. Non di quei condottieri che inalberano stendardi fascinosi e maneggiano belle idee, ma come scopo hanno quello di comandare in luogo di chi comanda ora. Mi sono stufato di chi continua a illustrare fino all’ossessione come sarebbe bello il mondo se lo governasse lui insieme a quelli come lui. La conosco bene questa solfa perché l’ho ruminata per troppo tempo anch’io e ora spero di averne perso almeno un po’ il gusto. Non sento il bisogno di crociate e di ardimentosi manipoli che tengono un occhio sul rosario e l’altro sul cellulare per sapere in tempo reale se sono stati citati dal giornale mainstream o se sono stati invitati là dove hanno stigmatizzato con raccapriccio la presenza di un Bergoglio. Non vorrei abitare in un mondo governato da loro così come non mi piace abitare nel mondo governato da draghi e quaquaraquà pandemici perché, alla fine, sarebbe lo stesso mondo.
Non voglio abitare in un mondo governato da quelli come me o, spero, da come sono stato. Voglio abitare in un mondo a immagine di Matrëna, di Sonja Semënovna, di Alëša Karamazov, di Raskol’nikov redento, di Mitja Karamazov restituito alla luce, di Ju81, di Sant’Ambrogio di Milano, di Amvosij di Optina, dei boscaioli buoni del Monte Canto, di medici come il mio amico Paolo Gulisano che si inventano giornate di quarantotto ore per curare i malati che altri lascerebbero volentieri morire, di mia mamma, di cui ho disprezzato i difetti senza amarne la bontà. Sarebbe un mondo in cui le follie pandemiche e gli altri mali cesserebbero in un amen. Non sarebbero neppure iniziati.
Alessandro Gnocchi